Tagli, esenzioni, mezze firme: la danza oscena e irresponsabile di governo e di popolo intorno alla manovra

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 31 Maggio 2010 - 15:24| Aggiornato il 21 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

C’è qualcosa di osceno e di irresponsabile nel metodo e nel merito con cui era stata compilata, meglio sarebbe dire “arronzata”, la lista dei 232 Enti, Istituti, Comitati e Fondazioni cui d’ora in poi lo Stato non avrebbe dato più un euro dopo aver sempre versato per anni. Sbrigativa rozzezza, faciloneria burocratica, riflesso contemporaneo della mai spenta avversione al “culturame” avevano ammucchiato nella stessa lista la Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli, la Scuola Archeologica di Atene/Roma, la Domus Galileana di Pisa, il Museo Poldi Pezzoli di Milano, l’Istituto Einaudi a Torino, l’Istituto Croce a Napoli, la Fondazione Cini a Venezia, tutte insieme a non numerossimi altri “luoghi” di reale cultura e scienza, mischiati con il Comitato per il Bimillenario di Vespasiano, quelle del Quarto Centenario di Alberico Gentili, quello dei 550 anni dalla nascita del Pinturicchio, l’Ente per la Trasformazione fondiaria e lo Sviluppo dell’irrigazione in Puglia e Lucania, tutti insieme a numerosissime sigle di conclamata inutilità e spreco.

E c’è qualcosa di osceno e inquietante nel metodo e nel merito con cui la lista è stata cancellata e rimossa: adesso sono tutti salvi. Non c’era stato criterio nella condanna di massa, non c’è stato criterio nell’assoluzione di massa. Tutti indistintamente i 232 Enti, Istituti, Comitati e Fondazioni hanno gridato di essere “prestigiosi” e “indispensabili”. Non uno su 232, non uno tra tanti ha avuto il pudore civile di non dichiararsi l’ombelico della nazione e la culla della cultura. E nessuno, non uno dei tanti Teatri, scuole di cinema, istituti musicali spende un solo secondo della sua riflessione nel chiedersi quale “cultura” sia quella per cui cultura in Italia può essere prodotta e praticata solo con i soldi dello Stato. L’oscenità della cancellazione ignorante è stata raddoppiata dall’oscenità della riammissione senza cultura.

C’è qualcosa di osceno e di irresponsabile in un Consiglio dei ministri che approva la manovra “salvo intese”, cioè in ministri che non sanno cosa approvano e si riservano poi di robustamente reclamare e lavorare alle “eccezioni” alle regole appena approvate: le Province abolite e poi risorte, la liquidazione a rate per gli statali poi sparita per pressione dei sindacati più vicini o meno lontani dal governo, i tagli negli stipendi dei magistrati. Magistrati che all’osceno non si sono sottratti coniando “l’indipendenza dello stipendio” come garanzia addirittura costituzionale.

C’è qualcosa di osceno e di irresponsabile in un capo del governo che aspetta quattro giorni a firmare la manovra del suo governo. Esitazione che è la scena madre di una recita oscena e irresponsabile: Berlusconi che vuol far sapere alla gente che la manovra non è “sua”, che la subisce e non la vuole, che le prova e le mostra tutte per non assumersi appunto la responsabilità di un atto di governo che non sarà premiato nei sondaggi di opinione. E oscena e irresponsabile è la conclamata bugia su cui Berlusconi appoggia la sua recita, quella per cui sono stati gli “altri” a far crescere a dismisura la spesa pubblica. Questa si è dilatata oltre ogni parametro anche negli ultimi dieci anni, decennio in cui soprattutto Berlusconi ha governato. Un capo di governo che fonda la sua comunicazione sulla bugia è osceno e non brillante, un capo di governo che gioca a dissociarsi dalla manovra finanziaria del suo governo non è astuto, è appunto irresponsabile.

C’è qualcosa di osceno e irresponsabile nell’opposizione che finge di giurare sulla necessità della manovra che limita la spesa pubblica e alimenta in ogni luogo del paese la rivendicazione che la spesa pubblica non si tocchi. E’ osceno che un’intero schieramento politico, la sinistra, corra a sostenere ogni cartello innalzato dove c’è melodrammaticamente scritto “Senza i soldi pubblici muore…”. Irresponsabile verso il Paese e anche in fondo verso se stessa è una sinistra che si vuole e si piace come la federazione delle corporazioni della spesa pubblica.

C’è qualcosa di osceno e irresponsabile nella comunicazione che definisce “mannaia” ogni posto letto tagliato in ospedale e “macello” ogni finanziamento pubblico che non arriva più. Oscena pigrizia informativa e irresponsabilità sociale nell’abdicare a ogni criterio di merito sulla qualità, utilizzo e destinazione di quella spesa.

E c’è infine qualcosa di osceno e irresponsabile in ciò che si dice e ciò che si tiene nascosto sul federalismo prossimo venturo. Sotto la pressione della manovra, cioè della insostenibilità della spesa pubblica, ciò che si sta sfarinando non è il federalismo ma il Paese. Il peso maggiore della manovra in termini di tagli alla spesa è su Regioni e Comuni. Se tutte le Regioni e tutti i Comuni si vedono “tagliati” in maniera uguale i finanziamenti dallo Stato centrale succede che Regioni con bilanci consistenti e in pareggio o quasi “contribuiscono” al risanamento più di quanto non siano chiamate a fare Regioni piccole o in dissesto finanziario. E’ giusto che una Regione con bilancio mille e deficit dieci debba rinunciare al dieci per cento, cioè a cento e una Regione con bilancio cinquecento e deficit duecento debba rinunciare al dieci per cento, cioè a cinquanta? In termini “federalisti” è sommamente ingiusto. Perciò le Regioni del Nord chiedono tagli “non lineari”, cioè non unitariamente indifferenziati. Chiedono che “tagli” di più chi più è in deficit e in debito, che tutte le Regioni siano obbligate al pareggio di bilancio. Se così fosse, ci sarebbero Regioni “virtuose” obbligate a tagliare poco o nulla e Regioni “viziose” obbligate a diminuire di un terzo la spesa. Le Italie sarebbero di fatto già due.

A meno che non sia lo Stato centrale a ripianare, non si sa con quali soldi, la spesa mancante alle Regioni “viziose”. E’ questo il costo del federalismo. Costo non sostenibile. Senza quel costo però il federalismo è di fatto scissione, secessione economica e sociale. E’ osceno che nessuno lo dica con chiarezza, è irresponsabile fare finta che non sia così quando tutti sanno che così è. Un detto popolare napoletano dice: Dividi la ricchezza e diventa povertà. Il federalismo è stato finora raccontato come: Dividi la povertà e diventa ricchezza. E’ osceno e irresponsabile averlo raccontato e creduto. Il federalismo è scelta, scommessa, conseguenze. E il federalismo con meno soldi e spesa pubblica è mortificazione delle aree geografiche e sociali economicamente più sane oppure separazione e abbandono di quelle più inefficienti e malate. E non uno, non uno che dica che il federalismo italiano ha un drammatico peccato originale: dovrebbe marciare sulle gambe della Istituzione più inefficiente, dilapidatoria e deficitaria che c’è, le Regioni appunto.

Osceno e irresponsabile è il “chiamarsi fuori”. Si chiama fuori il presidente del Consiglio e il funzionario statale che prepara il ricorso contro i mancati aumenti. Si chiama fuori il medico e il magistrato, l’intellettuale e l’attore, il burocrate e l’impiegato, il sindacato e la sinistra, il leghista di lotta e di governo. Si chiamano tutti fuori e “l’oscenità” non è per nulla percepita, anzi è rivendicata. Svanito ogni pudore sociale non potrebbe essere altrimenti. Quindi è uno “scandalo sociale” che non è nemmeno “opportuno” che avvenga come vuole la pedagogia evangelica: non si scandalizza nessuno. Resta la irresponsabilità, la Grande Fuga da ogni responsabilità. E’ ormai dogma e religione civile, ha il suo clero, i suoi fedeli, la sua liturgia, i suoi riti di massa. Costano e costeranno tutti insieme molto, moltissimo di più di una manovra da 25 miliardi. La danza oscena e irresponsabile ci mette un attimo a diventare danza macabra.