Gelmini, Vendola, Pinochet e l’emendamento perduto: l’Università della tristezza

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 1 Dicembre 2010 - 17:03 OLTRE 6 MESI FA

Gli studenti in piazza contro la riforma Gelmini

Forse un giorno lo leggeremo su Wikileaks il file “dell’emendamento perduto”. E allora ci farà impressione e apparirà rivelazione. Ma è tutto già scritto, e dimenticato, negli atti ufficiali della Camera dei deputati. C’era un emendamento del Pd, a firma Ignazio Marino. Introduceva il principio del finanziamento di progetti di ricerca destinati a giovani ricercatori sulla base de merito e della qualità della ricerca. Contro questo emendamento alla fine ha votato un solo partito: il Pd. Sulla base dell’argomento, illustrato da Bersani, che se si è contro la riforma Gelmini, allora si è contro tutta la riforma. Insomma la nuova legge per l’università si abbatte e non si cambia. Fa tristezza alla ragione anche se esalta i cuori un’opposizione così.

E fa tristezza, profonda e diffusa tristezza tutta la vicenda della nuova legge per l’università. La maggioranza che la vota e il ministro Gelmini che la esaltano come “svolta epocale”. In realtà è una legge che smuove appena un po’ di macerie di quel che è rimasto dell’università. Macerie sparse appena smosse e nessun nuovo edificio costruito, tanto meno dalle fondamenta. Una riforma timidissima che si è tenuta mille miglia al largo dalla questione decisiva del valore legale della laurea. Abolirlo sarebbe stato “epocale”. Terapia drastica anche se discutibile. Terapia d’urgenza, terapia “liberale”, terapia impopolare. Ma terapia e non carriola che sposta dieci metri più in là la “maceria” di titoli di studio di scarsissimo valore sul mercato dell’economia e anche su quello delle competenze e della cultura.

Timidissima riforma che non scioglie il connubio tra università e facoltà di medicina, connubio che consuma risorse ma protegge la categoria dei medici. Timidissima riforma che non  affronta la questione delle rette universitarie, oggi troppo alte se l’obiettivo è quella di una università di fatto gratuita e troppo basse se l’obiettivo è quello di una università capace di finanziare e produrre ricerca, tecnologia, cultura e pensiero. Non affronta il problema delle rette e neanche quello del sostegno economico agli studi dei non abbienti. Altrove nel mondo, nel mondo che piazza le sue università nei primi 150 posti nella classifica di qualità (l’Italia appare dopo in classifica) ogni università in autonomia stabilisce le sue rette e destina parte rilevante dei proventi a borse di studio per chi non può pagarle. Da noi si tengono più o meno ferme le rette, si tagliano le borse di studio anche perché andavano e vanno in buona parte a chi ha una famiglia di provenienza che bara nella dichiarazione dei redditi. Una riforma timidissima che mette tristezza per la cura con cui è stata costruita: cura a cambiare il meno possibile, spendendo il meno possibile, rischiando politicamente e culturalmente il meno possibile. Insomma, uno sgombero di piccole macerie e l’innalzamento orgoglioso di qualche cartello con sopra scritto: “Cantiere, stiamo lavorando per voi”.

E fa tristezza l’opposizione, tutta schierata a difesa dell’università che c’è. Università, quella che c’è, che è come una tassa diseguale per tutti. Una tassa come l’inflazione: colpisce e punisce soprattutto il ceto medio e basso mentre fa finta di essere uguale per tutti. Una università che non insegna e pratica competenze e cultura, una università che alla fine serve a poco o a nulla per chi la frequenta non è un “diritto” del popolo, è un osso gettato alla plebe. Un’opposizione che rimasticava in tv e sulle piazze l’articolo della Costituzione dove giustamente si legge: “Diritto allo studio per i capaci e meritevoli” non abbienti. Ma in Costituzione non c’è scritto il “diritto ad essere capaci e meritevoli”.

Che tristezza questi ricercatori. Uno di loro ha sintetizzato: “Voglio fare il ricercatore a vita con lo stipendio che prendono i ricercatori europei”. Quello stipendio i ricercatori in Europa lo prendono ed è dignitoso come non lo è quello italiano. Ma di “fare i ricercatori a vita” indipendentemente dalla qualità della ricerca in Europa neanche se lo sognano. Quel che da noi i ricercatori hanno additato come scandalo inaudito altrove è la regola, l’ovvia regola: contratto da ricercatore per sei/otto anni e poi a lavorare nell’università “a vita” i “meritevoli e capaci”, non tutti. Non tutti quelli che hanno avuto l’unica virtù e “acquisito diritto” di aver atteso con pazienza che si smaltissero le liste di attesa. La “scandalosa” riforma prevede che otto nuovi posti fissi e garantiti su dieci spettino a chi già “aspetta” a qualunque titolo, fosse anche solo quello di essere da tempo nella “portineria” delle “città degli studi”. Per i nuovi, quelli che verranno, meritevoli e capaci o no, solo due posti su dieci, indipendentemente da merito e capacità. Questi non fanno premio, fa premio l’anzianità di “prenotazione” del posto. Ma ai nostri ricercatori non basta, vogliono la “certezza”. Certezza umiliante, l’umiliazione di dover attendere anche decenni, sottopagati e sfruttati per fare la didattica che i professori di ruolo non fanno. Ma certezza: dagli anni 80 sono entrati in 30mila, senza vaglio, selezione. Tutti dentro prima o poi: è questo che vogliono i ricercatori. E fa tristezza constatare che un altro segmento della classe dirigente del paese, i ricercatori appunto, non siano in grado di concepire, nemmeno concepire il beneficio differito, l’interesse generale. Non degli altri o del “paese”, ma della loro stessa categoria. Come ogni altro segmento della classe dirigente sparita, anche i ricercatori ritengono “interesse generale” la somma degli interessi personali di ciascuno di loro. Miopia sociale e culturale che i ricercatori si autoinfliggono: che ricerca faranno, quali stipendi meriteranno in migliaia e migliaia di corsi di laurea inutili, inventati solo come retine acchiappa-farfalla di fondi pubblici?

Che tristezza l’equivoco diventato luogo comune e bandiera in piazza: questa legge che “affossa il futuro di una generazione”. La legge Gelmini il “futuro” non lo garantisce certo, neanche ci prova a dare all’Italia una università “europea”. Ma con l’università che c’è non c’è futuro per la generazione che la frequenta e ne esce. E che tristezza le parole sparse e sperse. Vendola: “Una tenaglia militare su Roma che richiama altre epoche e altri luoghi…repressione cilena”. Ma c’è mai stato Vendola nel Cile di Pinochet, lo ha mai visto un documentario? Il finto “scandalo” per gli studenti che bloccano strade e treni, perché gli evasori delle quote latte lo possono fare e gli studenti no? L’incapacità di definire un limite: Bersani che finge di non vedere che altra cosa è il corteo e altra è il grido “Violiamo la zona rossa”. Vendola che grida ai blindati come fossero carri armati e finge di non vedere, anzi proprio non vede, che quei furgoni di polizia sono stati posti di traverso come barricate per evitare lo scontro diretto.

Fa tristezza un governo che non sa fare una vera riforma, fa tristezza la Camera che fa passare solo emendamenti che annacquano una legge già diluita, come quello che annulla il commissariamento per le università che praticano il rosso di bilancio. Fa tristezza Vendola che grida “Al Pinochet” con sommo sprezzo del ridicolo. Fa tristezza Berlusconi che invoca gli unici studenti “che studiano” in quelli che non aprono bocca. Fa tristezza la sinistra che ha fatto del motto “resistere, resistere, resistere” non un argine all’immoralità e all’illegalità ma una trincea per resistere a tenere l’università e la scuola come sono. E fanno tristezza questi ricercatori che in fondo vogliono essere impiegati pubblici per raggiunta graduatoria. Gli unici a non indurre mestizia sono alla fine gli studenti, loro non sanno, non sono tenuti a sapere che stanno confondendo il futuro da costruire con le macerie del presente dentro le quali accamparsi. Loro almeno non sono classe dirigente. Se continua così, lo diventeranno nella maniera peggiore.