Pochi, maledetti e sbagliati i soldi pubblici ai giornali “politici”

di Lucio Fero
Pubblicato il 9 Dicembre 2009 - 15:20| Aggiornato il 21 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Concita De Gregorio, direttrice de "L'Unità"

Siamo il paese del “come stamo, stamo”, nel suo piccolo la vicenda dei soldi pubblici ai giornali “politici” lo conferma. Il “come stamo, stamo”, cioè l’immobilità astuta, il dogma del diritto acquisito, il chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori difeso come un diritto naturale ed eterno è splendidamente narrato da una sequenza del film “La grande guerra” di Mario Monicelli.

Trincea, arrivo del rancio, soldati che si precipitano a mettersi in fila, gavetta in mano davanti al pentolone. Il fante Alberto Sordi sbuca da un angolo, conquista uno dei primi posti e alla fila che spinge ammonisce e intima in romanesco: «Boni, boni, come stamo, stamo». Cioè nulla si muova perché io sto davanti, restiamo in ordine perché l’ordine che si è formato mi conviene. Non è solo romanesco, è lingua e cultura nazionale.

Venendo ai giornali “politici”, l’ordine attuale è che lo Stato finanzia con soldi freschi gli organi di stampa che possono vantate un qualche collegamento con partiti e forze politiche. Non sono pochi soldi e il principio che sta alla base del finanziamento pubblico è al tempo stesso condivisibile e discutibile.

Condivisibile è che il denaro pubblico sostenga in via diretta la pluralità e la diffusione delle opinioni. Discutibile è che, sotto una certa soglia di diffusione di quelle stesse opinioni e sotto una certa soglia di efficienza aziendale, il sostegno diventi una sorta di “pensione a vita” per alcune testate.

Tremonti, che prova a tagliare soldi un po’ a tutti, ha provata a tagliare anche un po’ di soldi ai giornali “politici”. Ha detto e ha messo nella legge finanziaria: non più pagamenti a piè di lista, insomma non più una cifra garantita ma un monte-soldi oltre il quale lo Stato non va.

Conseguenza: quando il monte-soldi è esaurito, stop ai finanziamenti e qualche giornale dovrà tagliare le spese. Hanno obiettato i giornali: se il finanziamento non è sicuro e garantito nell’entità attuale le banche non ci fanno credito o ce ne fanno di meno. Ineccepibile.

E allora? Allora è stata trovata la soluzione: i soldi saranno garantiti alle testate, ai giornali “di partito e storici”. E in questa formula che ha fatto tutti contenti si annida maligno e dannoso, ingiusto e protervo il “come stamo, stamo”. Innanzitutto il “di partito”.

Ieri da Tremonti sono andati i direttori del “Secolo”, Flavia Perina, de l’Unità, Concita De Gregorio, di “Liberazione”, Dino Grego e di “Europa”, Stefano Menichini. Il “Secolo” ottiene finanziamenti in quanto giornale del Pdl? No, di An, partito che non c’è più. Stessa storia per “Europa”, quotidiano della scomparsa “Margherita”. “Liberazione” fa capo a Rifondazione comunista che c’è ancora ma altra cosa è diventata nella realtà politica ed elettorale e “l’Unità”, più o meno, più meno che più, fa riferimento al Pd.

Più o meno, più meno che più, tutto in regola secondo un parametro che privilegia la tradizione, il “posto occupato” piuttosto che la realtà mutata e mutevole. Ma poi di “giornali di partito” ce ne sono molti altri, alcuni invisibili, stampati solo per incassare soldi pubblici e non per vendere copie in edicola che infatti non vendono. Basta che due parlamentari firmino una specie di “cambiale” politica di vicinanza al giornale e il giornale incassa.

E’ stato allora deciso che ci sarà una griglia, una regola? sono stati definiti i criteri quantitativi e qualitativi per definirsi ed essere riconosciuti come giornali di partito in modo che non sia una furbata editoriale solo formalmente corretta? No, sarebbe stato troppo logico e giusto, quindi faticoso e impossibile.

Si è ricorsi al secondo concetto, alla seconda “qualità” per prendere soldi pubblici: essere “testate storiche”. E che vuol dire? Che stanno lì mda tanto tempo? Da quanto? Quanti anni o decenni ci vogliono per entrare nella “storia”? Parametro elastico, incerto. Ma buono a tener dentro chi appunto è già dentro. Non importa la quantità del deficit di gestione e la sua progressione. Non si chiede di rientrare del debito o di limitare le spese.

Non c’è misura che misuri appunto la rappresentatività del giornale nè rispetto alla geografia politica, parametro democratico, nè rispetto alla diffusione in edicola, parametro aziendale. Quel che conta è esserci da prima, la condizione richiesta per ottenere soldi pubblici è solo e soltanto quella di averli presi finora.

Tutte contente le “testate storiche” che fortemente si erano lamentate in prima pagina. E contento il sindacato dei giornalisti e i guardiani della libertà di informazione. Contenti di una situazione assurda e fortemente ingiusta: un quotidiano come “Il Fatto quotidiano”, fresco di pochi mesi di edicola e che vende forse più dei quattro citati messi insieme, non ha diritto a sostegni perchè non è “storico”? E una cooperativa editoriale nata uno o due anni fa o che volesse nascere oggi perchè deve essere “figliastra”, esclusa da questo medievale diritto di primogenitura? Per queste domande c’è una sola triste risposta: il “come stamo, stamo”, dogma e regola di ogni corporazione, quella dei taxisti come quella dei giornalisti “di partito e storici”.

Dogma triste di una religione bugiarda: non è vero che la libertà di espressione e di informazione si difende e si pratica finanziando con soldi pubblici giornali a prescindere. I finanziamenti dovrebbero essere legati e condizionati a piani di risanamento, dovrebbero avere archi temporali e verifiche progressive.

Dovrebbero essere aiuto ed investimento e non rendita. Peggio che mai rendita di posizione. Ovvietà, buon senso, corretta declinazione di diritti e doveri, giusta risposta al giusto bisogno di non affidare la libertà di informazione e stampa al solo mercato.

Ma solo a sussurrarle queste cose si passa per matti, i giornali “politici, di partito e storiche testate” non vogliono opportunità ed effettiva libertà di rischiare l’impresa delle idee, vogliono la “pensione” e una rendita, anche minima, ma garantita.