Reato di clandestinità: 12 condanne in 18 mesi. Flop di una norma-manifesto

Pubblicato il 13 Maggio 2013 - 15:12 OLTRE 6 MESI FA
Reato di clandestinità: 12 condanne in 18 mesi. Flop di una norma-manifesto

Reato di clandestinità: 12 condanne in 18 mesi. Flop di una norma-manifesto

ROMA – Solo 12 condanne in 18 mesi, un numero risibile per quella che è sempre stata più che altro una norma manifesto, alla prova dei fatti inapplicabile. Il reato di clandestinità che la ministra dell’Integrazione Cecile Kyenge vorrebbe cancellare e la Lega Nord, al contrario, rilanciare è in realtà una legge flop. A fare acqua da tutte le parti è la complessa macchina burocratica, fatta di Cie, processi penali pendenti ed espulsioni.

Ma procediamo con ordine: il 15 luglio 2009 viene emanato il Pacchetto Sicurezza, contenente il famigerato art. 10bis configurante appunto il “reato di clandestinità”: lo straniero che accede al territorio italiano o vi permane illegalmente commette reato, punibile con un’ammenda da 5mila a 10 mila euro. Ma chi è che controlla l’applicazione delle nuove norme? Secondo la Direzione generale della giustizia penale, che ha controllato il 79% dei fascicoli iscritti nei tribunali italiani nei primi 18 mesi di vita della legge, i dati rilevati sono impietosi se si considera che in Italia è stimata una presenza di oltre 500 mila stranieri irregolari. Appena 172 i fascicoli aperti. Di questi, solo 55 sono stati definiti. Risultato: appena 12 sentenze di condanna per il reato di clandestinità e 18 patteggiamenti. Lo strumento repressivo non funziona.

E non è tutto: a frenare il meccanismo non è solo la lentezza della giustizia italiana, ma pure la macchina delle espulsioni. Il loro numero è cresciuto ininterrottamente fino al 2002 (superando quota 44mila), per poi calare e raggiungere poco più di 10mila casi l’anno. Secondo una ricerca del sociologo Asher Colombo, in Italia solo il 18% degli immigrati irregolari viene espulso, contro il 49% del 2003. Il calo coincide con una sentenza della Corte costituzionale, del 2004, che ha sbarrato la strada ai rimpatri senza un preventivo controllo da parte di un magistrato.

A questo irrigidimento si aggiunge il mal funzionamento della rete dei Cie, Centri di identificazione ed espulsione, percepiti per lo più come “fabbriche di clandestini” o peggio “lager”. E’ qui che vengono trattenuti i sopravvissuti dei gommoni che sbarbano sulle coste del sud Italia. Un sistema per lo più inefficiente che brucia 200mila euro al giorno di denaro pubblico. Il quotidiano la Repubblica riporta i dati raccolti dall’Associazione A buon Diritto. Nel rapporto 2012 si legge che:

Dal ‘99 al 2011 per i centri d’espulsione si è speso un miliardo di euro. I risultati? Deludenti, come dimostra il rapporto 2012 dell’associazione “A buon diritto”: nell’ultimo anno infatti gli espulsi sono stati meno della metà dei trattenuti, record a Milano e Modena (con percentuali oltre il 60%), maglia nera a Brindisi (ferma al25%). 

Due considerazioni. La prima fa riferimento alla lentezza dei processi in Italia: se la legge è del 2009 e i dati del 2010 è difficile che in un solo anno si sia arrivati a numeri importanti. La seconda considerazione, invece, è che di fronte a questi numeri è chiaro che si parla di una norma impossibile da applicare. E’ come dire che tutti quelli che gettano la carta per terra devono essere processati! E una norma non applicata non può che generare un clima negativo, quasi di impunità diffusa. Incide sul senso di appropriatezza del sistema giuridico.