Tremonti “spiato”? La Guardia di Finanza: “Da sette anni non dorme da noi”

Pubblicato il 30 Luglio 2011 - 10:08 OLTRE 6 MESI FA

Giulio Tremonti (Lapresse photo)

ROMA – Secondo quanto Repubblica racconta, se il cruccio principale del ministro Giulio Tremonti sarebbe spiegare che l’affitto della casa di Roma non era in nero e nemmeno frutto di tangente, ce ne sarebbe anche un altro: quella di essere stato “pedinato” e “spiato”.

Il titolare dell’Economia non si sarebbe sentito tranquillo nemmeno nella caserma della Guardia di Finanza che lo ospitava. Carlo Bonini su Repubblica riporta la replica delle Fiamme Gialle: Tremonti non avrebbe più dormito in caserma dal giugno-luglio del 2004, ovvero da sette anni.

Una fonte anonima della Gdf, scrive il quotidiano, ha commentato: “Naturalmente tenendone traccia, come è normale e come la legge prevede per qualunque personalità sia sottoposta a un massimo livello di vigilanza come un ministro”.

Il 16 dicembre del 2010, il ministro parla per la prima volta ai pm napoletani, ma non racconta delle sue paure. Il 17 giugno,davanti ai magistrati Henry John Woodcock e Francesco Curcio torna a dare la sua versione sulla vicenda della casa in via di campo Marzio, ma non dice niente riguardo alla sensazione di essere spiato.

Il 13 giugno, quindi quattro giorni prima, sarebbe stato Marco Milanese, avrebbe riferito che “il ministro aveva la percezione di essere seguito”.

Poi il 29 luglio secondo quanto ha scritto Repubblica, Tremonti si sarebbe sfogato così: “Lo riconosco. Ho fatto una stupidata. E di questo mi rammarico e mi assumo tutte le responsabilità. Ma in quella casa non ci sono andato per banale leggerezza. Il fatto è che prima ero in caserma ma non mi sentivo più tranquillo. Nel mio lavoro ero spiato, controllato, pedinato. Per questo ho accettato l’offerta di Milanese…”.

Il ministro, però, stando a queste frasi riportate dal quotidiano, non avrebbe parlato di date precise riferendosi ai timori di essere  “spiato”.

Ecco cosa scrive Bonini: “Soltanto quando viene sollecitato con l’ascolto di un’intercettazione telefonica tra il capo di stato maggiore Michele Adinolfi e il presidente del Consiglio, decide di aprire uno squarcio su quanto accade negli uffici dello Stato Maggiore in viale XXI aprile. “Gli ufficiali, nella prospettiva di diventare comandanti generali hanno preso a coltivare relazioni esterne al Corpo, che non trovo opportune. C’è il rischio di competizione. (…) Ho suggerito al Comandante Generale di dare alcune direttive nel senso di avere un tipo di vita più sobria. Gli ho detto: “Meno salotti, meno palazzi, più caserma”. I pm insistono. E Tremonti, allora, evoca l’esistenza di “cordate” nel corpo. E una, almeno, decide di “battezzarla” con il nome del suo capobastone, il generale Michele Adinolfi, intimo di Gianni Letta e del presidente del Consiglio. Nessun accenno a pedinamenti, a spionaggio ai suoi danni. Anzi, a Woodcock e Curcio, il ministro decide di offrire un’interpretazione morbida di quanto ha appena detto. “Ribadisco che non ho mai detto a Berlusconi che lui mi voleva far fuori attraverso la Guardia di Finanza”.