Andrew Cuomo: dal padre Mario al suocero Bob Kennedy, dinastie e corruzione a New York

Pubblicato il 12 Agosto 2010 - 09:24 OLTRE 6 MESI FA

Andrew Cuomo sarà con ogni probabilità il prossimo governatore dello stato di New York. Un tale traguardo di certo non se lo sarebbe aspettato suo nonno, arrivato a New York da Nocera Superiore, provincia di Salerno, per aprire un negozio di alimentari in South Jamaica, quartiere popolare del Queens. Per il padre, Mario, l’ambizione di Andrew è più comprensibile. Quell’ambizione chi la conosce meglio di lui, quel Mario Cuomo che per più di un decennio calpestò i corridoi dei palazzi Albany, la sede del governatore e poi, dopo molte incertezze, rinunciò a candidarsi a Presidente degli Stati Uniti, forse per gli scheletri nell’armadio che spesso tormentano i politici italo-americani.

Dunque i Cuomo come i Kennedy o come i Clinton: dinastie americane, uomini che fanno del sangue un’arma politica e della politica un affare di sangue (ma con meno grezza arroganza del familismo all’italiana, vedi Trota Bossi). D’altronde Andrew Cuomo sa più di qualche cosa sulle saghe famigliari politiche. Ha legato il suo destino personale ai Kennedy – l’archetipo stesso di una dinastia politica- tramite il matrimonio con Kerry, settima figlia di Bob (il processo di divorzio ebbe inizio quando Kerry fu sorpresa dalla stampa scandalistica tra le braccia di un giocatore di polo). Per anni ha lavorato a stretto contatto con Bill Clinton, grazie al quale ottenne i primi incarichi politici di rilievo (nel suo ufficio, tra i pochi ricordi appesi, si trovano delle parole crociate, di cui una delle definizioni – Cuomo – è stata inserita dalla mano di Bill). Il più importante ioncarico fu quello di ministro per l’edilizia popolare, un ruolo molto delicato dal punto di vista politico, per il rapporto privilegiato con la base elettorale di sinistra e anche delicato sotto il profilo dei rischi. Infatti il predecessore di Cuomo, Henry Cisneros, dovette lasciare l’incarico nel turbine di un’inchiesta dell’Fbi sul suo operato.

Alla carica di Governatore dello Stato di New York Cuomo ci pensa da qualche anno, fin dal 2002. Allora rinunciò quando capì che il partito democratico di New York non lo avrebbe sostenuto (gli Usa sono un paese veramente federalista) dopo una infelice frase da lui pronunciata a lode dei repubblicano. Rinunciò poi anche nel 2006, quando si profilò per i democratici la candidatura di Eliot Spitzer, che aveva conquistato molta visibilità come Procuratore generale dello Stato. Spitzer fu eletto e poi fu costretto a dimettersi perché travolto, lui, sterminatore di bordelli e puttane, proprio in una miserabile storia di una “fellatio” senza preservativo con una prostituta.

Eletto Spitzer governatore, Cuomo ripiegò per la carica di Procuratore generale, che, Spitzer e altri politici di destra e di sinistra docent, può essere una eccellente piattaforma che l’alta visibilità che può dare.

Oggi Andrew Cuomo, è pronto a fare il grande salto verso la poltrona di governatore. In molti lo descrivono come furbo e smaliziato, ambizioso e pronto a tutto, populista e mediatico. Ma New York è New York  e l’idealismo da queste parti non va di moda. I paragoni dei libri come La Casta tra un qualsiasi assessore regionale italiano e il governatore della California, qui non contano, ammesso che contino davvero anche in Italia. Questa è stata la città, o meglio il feudo, di Boss Tweed, il politico della fine dell’800 che riuscì a rubare alle casse pubbliche qualcosa come 200 milioni di dollari dell’epoca.

I privilegi della burocrazia newyorchese sono materia di sgomento. L’indignazione pubblica è fomentata dall’arroganza e dai privilegi dei potenti sindacati impiegatizi, che sono negli anni riusciti a perpetuare un sistema di pensioni dorate, posti assicurati, stipendi ultragenerosi. Proprio mentre il debito pubblico raggiungeva proporzioni astronomiche, al punto da ricordare a molti la situazione del 1970, anno in cui i dirigenti dello stato furono sul punto di dichiarare la bancarotta. L’inefficienza e la corruzione arriva alle sfere più alte. Politici di primo piano hanno terminato la loro carriera ad Albany dopo essere stati coinvolti in scandali sessuali o aver ricevuto mandati di comparizione. Solo qualche mese fa, Pedro Espada jr., senatore democratico del Bronx è stato messo sotto accusa dall’allora procuratore generale Andrew Cuomo – sarà stato un caso? – per aver speso 20000 dollari di soldi federali in cibo giapponese takeaway.

Se Cuomo sia o no la persona giusta per “pulire” Albany è difficile prevederlo. Il momento sembra certamente essere quello giusto. La gente è sempre più indignata dalla corruzione e dall’inefficienza di New York. Quello che sta cercando di fare Andrew è incanalare questa delusione e trasformarla in un plebiscito popolare che lo porti ai palazzi di Albany. A molti può sembrare solo una manovra populistica dettata dal pragmatismo di un giovane rampante della politica nazionale.  Certo è però che Andrew, anche all’interno del suo stesso partito, ha già creato qualche malumore. In molti temono che il suo approccio energico e populistico cambi veramente le cose. Qui a New York, i deputati delle due camere hanno una media di rielezione del 95% e il presidente del parlamento dello Stato – una carica con un fortissimo potere – è in carica dal 1994. Normale dunque che lo status quo goda di una certa rigidità e che si tema che qualcuno – sarà Andrew Cuomo? – irrompa a scuotere il sistema.