Iraq: contro l’Isis usare solo i peshmerga? L’Impero britannico fece così: armare i cristiani contro gli arabi…

di Redazione Blitz
Pubblicato il 15 Agosto 2014 - 06:38 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Armare i peshmerga curdi per risolvere il problema Isis senza sporcarsi più di tanto le mani in Iraq? Usare le fortissime rivalità etniche e religiose delle fazioni presenti sul posto, invece di avventurarsi in costose e rischiose invasioni alla Bush? È una strategia largamente sperimentata e quasi sempre efficace, almeno a breve termine. A volte, a lungo termine, ti si ritorce contro (vedi i casi di Saddam Hussein e Osama Bin Laden).

Lo fece già l’Impero Britannico quando dagli anni Venti prese il controllo della fetta di Medio Oriente che da allora conosciamo come Iraq, armando i cristiani Assiri contro gli arabi musulmani. Una storia ben descritta in queste tre righe estratte da The Road Past Mandalay, memoriale di guerra dell’ufficiale inglese John Masters:

“La Raf aveva arruolato svariate migliaia di reclute locali per difendere i propri bastioni in Iraq; una gran parte di loro erano cristiani assiri. Nelle loro preghiere più accorate gli assiri non avrebbero potuto chiedere niente di meglio che un’occasione per restituire agli arabi quello che avevano dovuto subire in tanti anni di massacri sistematici”.

In Iraq c’è una comunità cristiana fra le più antiche al mondo, un po’ come quella degli ebrei romani. Nel libro “By the Waters of Babylon” (1972) James Wallard ipotizza che addirittura San Pietro si riferisse alla regione fra il Tigri  quando parlò nei vangeli di una “Chiesa a Babilonia”.

Tracce di questo complesso scacchiere iracheno si trovano nel reportage dal fronte di Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera, in cui i peshmerga curdi, che dovrebbero essere la pedina americana, lamentano che gli avversari dell’Isis abbiano in dotazione armi americane:

All’origine dell’evidente disorientamento tra i curdi e le loro richieste di assistenza sta il totale effetto sorpresa causato dell’offensiva lanciata dalle brigate islamiche ai primi di agosto. E’ come se il vecchio mito degli indomiti guerriglieri curdi sempre all’erta sulle montagne fosse un poco ossidato. I giovani sono meno propensi al sacrificio. Il benessere degli ultimi anni li distrae. E gli eroi delle guerre contro Saddam Hussein sono in pensione. Pure, in tanti tra questi rispondono alla mobilitazione, anche se con i baffi grigi e la pancetta. «Sinceramente non ci aspettavamo che i radicali sunniti potessero attaccarci tanto presto. Ci avevano provato a giugno e li avevamo battuti. Quindi avevano concentrato i loro sforzi per la conquista di Bagdad. Ancora adesso stentiamo a comprendere la loro logica. Nell’arco di poche ore hanno distolto uomini e mezzi dal loro obbiettivo principale per lanciarli verso nord», dice il generale Helgurd Hikmet Mela Ali, responsabile per la comunicazione dei peshmerga.

La spiegazione più calzante giunge però dall’esame degli arsenali di carri armati, autoblindo, artiglierie, mitra e munizioni di ogni calibro catturati dalle brigate islamiche all’esercito regolare iracheno durante la loro presa di Mosul e la strabiliante serie di vittorie nel centro-nord del Paese ai primi di giugno. Allora ben sei divisioni regolari irachene armate ed equipaggiate di tutto punto alzarono le mani e si dettero alla fuga praticamente senza combattere. «Da quel momento le ancora disordinate e male armate milizie islamiche hanno subito una trasformazione radicale. Da forse 30.000 guerriglieri più o meno improvvisati sono diventati un vero esercito con oltre 100.000 soldati dotato di armi e mezzi molto più sofisticati dei nostri. Noi usiamo ancora le armi prese all’esercito di Saddam Hussein battuto degli americani nel 2003, loro posseggono il meglio della tecnologia bellica made in Usa. Sappiamo che in due grandi basi a Mosul e una ancora più vasta a Beiji erano stoccati centinaia di gipponi blindati ultimo modello, batterie da 150 millimetri in grado di sparare a oltre 30 chilometri di distanza, oltre a depositi immensi di munizioni di ogni calibro e tipo. Ormai il Califfato è uno Stato, un’entità territoriale organizzata che controlla un’armata super equipaggiata e con ottimi soldati addestrati sui campi di battaglia, specie quelli nella Siria degli ultimi tre anni», spiega ancora Hussein.

Non stupisce che i primi raid Usa abbiano colpito alcune batterie di cannoni che stavano per sparare su Erbil e il suo aeroporto internazionale. Gira voce che gli islamici posseggano anche missili terra-aria, ma non ci sono conferme. «I nostri peshmerga si accorsero subito che i loro bazooka anticarro erano impotenti di fronte alle blindature dei mezzi in mano al nemico. Nella piana di Ninive, attorno ai villaggi cristiani, l’unica scelta possibile è stata la ritirata». Lo stesso avvenne per le unità attestate attorno alla diga che forma il gigantesco bacino idrico di Mosul. I comandi curdi non credono ora che i capi del Califfato intendano distruggerla. «Se lo facessero, l’intera città di Mosul e parte di quella di Kirkuk, assieme a diversi pozzi petroliferi, sparirebbero sotto 11 metri d’acqua. Ma a pagare il prezzo sarebbe anche il Califfato, visto che proprio a Mosul ha posto il suo quartier generale. Usano la diga per ricattarci: se noi dovessimo cercare di riprenderla e loro si sentissero minacciati, allora sì che potrebbero distruggerla», dice Hikmet”.

Sul Messaggero Franca Giansoldati intervista il cardinale Fernando Filoni, inviato di Papa Francesco in Iraq. Il porporato è molto critico con gli americani perché “non si è riusciti a costruire una convivenza fra gruppi ed entità” e perché “non si può pensare che l’Isis si sia materializzato da un giorno all’altro“:

I fiumi di greggio presenti nelle viscere dell’Iraq restano una maledizione. Altro che oro nero. Dal 2003 questa dannazione è costata la vita a 405 mila persone, e ora ha pure dato vita al peggiore degli incubi. Il genocidio dei cristiani (assieme alle altre minoranze).
«Io l’ho sempre detto, se non ci fosse stato il petrolio nessuno sarebbe mai andato a morire nella sabbia».
Il cardinale Fernando Filoni è reduce da una lunga conversazione con Francesco a Santa Marta; ha pregato in cappella e ora sta controllando le ultime cose prima di partire per Baghdad, proseguendo poi per Erbil, in territorio curdo. L’inviato scelto dal Papa è il cardinale che meglio conosce il territorio iracheno avendo fatto il nunzio mentre, nel 2003, cadevano le bombe.
«Che non erano di certo intelligenti come si è poi visto».

[…]Aveva ragione Papa Wojtyla quando diceva che la guerra di Bush jr avrebbe portato solo devastazione…
«Non è questione di chi ha ragione o meno. Anche perché poi in questi dieci anni vi sono stati attentati su attentati, errori su errori, altri problemi, debolezze varie, fino a portare il Paese in una sostanziale fragilità. Non serve a nulla guardare in questo modo il passato. Semmai occorre riconoscere di come non si sia riusciti a ricostruire una convivenza tra gruppi ed entità».
Lei sta dicendo che le responsabilità, se il Califfato avanza, vanno equamente suddivise tra gli americani e gli iracheni?
«Beh, non si può pensare che questa forza, l’Isis, si sia materializzata da un giorno all’altro così, mettendo in crisi tutti. Bisogna semmai vedere da quanto tempo covava sotto la cenere questa realtà. Chi la ha sostenuta, chi non ha fatto nulla per fermarla».
Alla fine proprio nella patria di Abramo, ha preso corpo il genocidio contro i cristiani…
«Genocidio: una parola pesantissima che implica sradicamento, eliminazione, tuttavia non riguarda solo i cristiani ma anche altre realtà. Tutte le minoranze consistenti sono in difficoltà».
Perché secondo lei gli americani hanno deciso di difendere Erbil, e i cristiani in fuga per impedire il genocidio, ma poi non fanno nulla per aiutare i cristiani in Siria che non se la passano di certo meglio?
«Questa è una domanda che non dovrebbe fare a me».
Il petrolio ancora una volta è determinante.