Il blocco di Gaza, l’Onu e la trappola israeliana: i motivi del no italiano

Pubblicato il 3 Giugno 2010 - 10:41 OLTRE 6 MESI FA

Ancor prima che Israele pensi alla sua “auto-flagellazione” con un’inchiesta interna, ci ha pensato l’Onu a condannare l’assalto alla nave di Freedom Flotilla. Il sangue versato nel blitz disorganizzato, che ha portato allo scoperto un esercito troppo orgoglioso della sua forza incontrollata, ha riproposto in modo tragico davanti agli occhi della comunità internazionale la  questione mediorientale.

Il voto dell’Onu contro il governo di Benjamin Netanyahu è arrivato a meno di 48 ore dall’arrembaggio alla nave di attivisti che portavano medicinali, calcestruzzo e aiuti umanitari a Gaza. Abbiamo rivisto grazie ai video diffusi una scena già nota: soldati in divisa, con fucili ed elmetti, da una parte, contro civili armati di bastoni, sedie, forse sassi o oggetti rimediati all’ultimo momento dall’altra.

L’Italia, come l’Olanda e come era prevedibile anche gli Stati Uniti, non ha voluto dare avallo politico a una sentenza “affrettata” e “ipocrita” secondo Israele e doverosa e tempestiva secondo altri interlocutori internazionali, convocati in riunione straordinaria su iniziativa del rappresentante palestinese e di quelli del Sudan, del Pakistan a nome della Lega Araba e dell’Oci, l’Organizzazione della conferenza islamica.

Se a frenare Roma, così come la storica amica israeliana, Washington, è stata proprio quella riunione alle Nazioni Unite di colore verde islam, con Islamabad, Ankara e Khartoum apertamente ostili a Israele, questo non giustificherebbe il voto contrario. L’Italia avrebbe potuto astenersi, ma non lo ha fatto per proteggere i suoi equilibri politici, già precari, sullo scacchiere internazionale e mantenere saldo l’asse Roma-Washington, che a quanto pare passa anche da Tel Aviv. Il Governo, se prima per bocca del premier Silvio Berlusconi, aveva chiesto un’indagine imparziale poi ha fatto retromarcia, attirandosi le ire del Pd e della sinistra radicale.

Non firmando la risoluzione approvata a Ginevra, il nostro Paese di fatto ha negato che l’azione di Israele sia stata un “attacco vergognoso” (così lo ha definito il Consiglio dei diritti umani); forse però ha anche influito sulla cautela italiana il fatto che la nave oggetto dell’arrembaggio, la Mavi Marmara, sia stata fornita dalla ong turca Yardim Vakfi, aggiuntasi nel 2010 nel gruppo Free Gaza, che è molto vicina al governo di Ankara ma è anche accusata di finanziare Hamas e il terrorismo islamico.

Mentre Israele si è schiacciata con la sua stessa forza in un isolamento internazionale forzato e prevedibile, hanno vinto i muscoli e la propaganda di Hamas e del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Questi due protagonisti della partita, così come i vertici dell’Oci, negano l’esistenza dello Stato ebraico. Se questo non vale per la Turchia, Ankara comunque non poteva non prendere una dura posizione contro l’assalto alla flottiglia, chiedendo la revoca del blocco di Gaza (embargo imposto da Israele a partire dal 2007, da quando Hamas ha preso il controllo dell’area), e accusando Tel Aviv di un uso “scellerato” dei soldati ai danni di civili senza alcun valido motivo.  Il premier turco Recep Tayyp Erdogan e il suo partito islamico Akp si vogliono di certo ritagliare un posto nella Regione, puntano all’Europa e a un dialogo sempre più serrato con gli Usa, ma soprattutto sono decisi a ridimensionare il ruolo dei militari, i quali sono -o meglio erano- i principali interlocutori e partner di Israele.

A questo punto gli Usa hanno provato a fare ragionare Israele e a fare pressing per lasciare Gaza libera. L’amministrazione Obama, ormai la sola o quasi che ancora crede alla versione ebraica (che racconta dei soldati che hanno risposto all’assalto dagli attivisti) spinge per un nuovo approccio perché il blocco non è più sostenibile sia per fare arrivare maggiori rifornimenti ai territori palestinesi ed evitare soprusi e violenze gratuite, sia per garantire la sicurezza di Israele cara a Washington e all’Occidente.

Dalle colonne del New York Times un funzionario del governo Usa si sfoga:  “Gaza è diventata il simbolo nel mondo arabo del modo in cui Israele tratta i palestinesi, e noi dobbiamo cambiare questo. Dobbiamo eliminare l’incentivo alle ‘flotte’. Gli israeliani devono capire che questo non è sostenibile”.