Imu. Bomba di Berlusconi, rischio 22 miliardi: mercato, altre idee per smuoverlo

Pubblicato il 31 Maggio 2013 - 06:14 OLTRE 6 MESI FA
Tito Boeri, proposte alternative alla abolizione della Imu

Berlusconi ha montato un bel caos con la storia della Imu. Facendo una bandiera della sua abolizione ha messo in movimento un domino che porterà una parte degli italiani, probabilmente in prevalenza quelli che lo hanno votato, a pagare ancora più tasse per consentire agli altri un sollievo di poche centinaia di euro che ha un grande valore simbolico di oppressione fiscale ma un un peso tale da rovinare definitivamente le fasce più deboli.

C’è da sperare che la lettera della Unione Europea, che sembra tanto scritta proprio a Roma, trascritta in carta intestata Ue e impostata a Bruxelles, blocchi tutti fornendo a Berlusconi un alibi per la retromarcia da imputare sul conto dell’Europa.

Un articolo di Tito Boeri su Repubblica (“La trincea dell’equità”) conferma questi timori:

“La eventuale abolizione della Imu sulla prima casa rischia di aprire una voragine nei conti dello Stato (oltre che in quelli dei Comuni), con una perdita di gettito ben superiore ai 4 miliardi della Imu sulla prima casa. Pezzo dopo pezzo, può crollare tutto il gettito dell’Imu, una torta di 22 miliardi, attorno a un punto e mezzo di pil e bisognerà rimpiazzarlo con tasse sul lavoro. Se così fosse, sarebbero tra i 4 e i 5 punti di cuneo fiscale in più.

Conferma anche la mancanza di fantasia che accomuna Berlusconi e quelli del Fisco, indicando una serie di idee alternative che appaiono molto più efficaci e meno sconvolgenti.

Tito Boeri parte dalle proteste

“di chi si sente discriminato”

dalle previsioni di revisione della Imu:

– le imprese che protestano perché pagano tasse salatissime sui capannoni industriali. Sono raddoppiate rispetto a quelle dell’Ici perché le imprese non votano e i Comuni hanno preferito aumentare le imposte sulle imprese piuttosto che aumentare quelle sulle famiglie residenti;

– idem dicasi per le tasse su alberghi e negozi che non sono state sospese;

– i proprietari delle seconde case, non sempre ricchi (il terzo di loro più povero ha gli stessi redditi di chi ha una sola casa, secondo l’indagine Banca d’Italia). Anche i proprietari di seconde case in genere non votano nei Comuni che li tassano e dunque hanno assistito impotenti al forte incremento delle aliquote sulle loro proprietà, in nome del nobile principio secondo cui ci può essere tassazione solo senza rappresentazione” [che è esattamente la applicazione all’italiana del principio fondamentale della democrazia occidentale: nessuna tassazione senza rappresentanza. In questa formulazione è alla base della Rivoluzione americana ma nel suo primo nucleo è uno dei cardini della Magna Charta];

– gli affittuari, che equità vorrebbe venissero trattati come i proprietari: se la prima casa è un bene che non si può tassare, dovrebbero poter dedurre le spese di affitto nella dichiarazione dei redditi (o detrarle ad aliquota uguale per tutti dalle imposte dovute).

 

La casa, ricorda Tito Boeri,

“è un bene che sta molto a cuore agli italiani, dato che l’80 per cento dei nostri concittadini ne possiede una. Inoltre è un bene poco liquido e indivisibile (non si può vendere un pezzo di casa) […] che sta diventando un bene ancora meno liquido, molto difficile da vendere senza realizzare pesantissime perdite. Dall’inizio della crisi, il numero di compravendite si è dimezzato. E il crollo del mercato nella seconda recessione è diventato più ripido, quasi verticale: meno 25% di compravendite nel solo 2012”.

Ecco la proposta, che è difficile capire se si possa tradurre in un vero propellente di crescita, ma che ha il merito della originalità:

“Un modo per rivitalizzare il mercato consiste nel ridurre i costi per chi vuole vendere la casa di cui è proprietario per comprarne una più piccola. Ci sono molti pensionati che hanno investito la loro liquidazione e i risparmi di una vita in una casa di un certo valore e che oggi si ritrovano “houserich e cash poor”, con una proprietà immobiliare importante, ma illiquida, e un reddito molto basso. La cosa più ragionevole da fare sarebbe perciò ridurre fortemente le tasse sulla compravendita di immobili, anziché abolire l’Imu sulla prima casa. È un modo per mobilizzare ricchezza, perché rende più liquido il bene casa, e migliora al contempo la distribuzione del nostro patrimonio edilizio.

“Oggi una famiglia può essere disposta a vendere una casa a un prezzo anche significativamente inferiore a quello a cui era stata valutata 5 anni fa se può al contempo comprarsi un’altra casa a prezzi altrettanto scontati (il calo delle compravendite, e presumibilmente dei prezzi, sembra in molte città essere stato più forte negli immobili di piccole dimensioni).

“Se invece deve pagare il 3 per cento del valore catastale dell’immobile sia all’atto della vendita che a quello dell’acquisto, il gioco non vale la candela. Meglio stringere la cinghia e rimanere in una casa troppo grande per il proprio reddito (ricordiamoci che dall’inizio della crisi il reddito nazionale è calato del 10 per cento e quello pro capite ancora di più).

“Chi ha seconde case paga poi fino al 10 per cento di imposta di registro in aggiunta a un’Imu molto pesante e nessun ordinamento da paese civile prevede che il patrimonio venga tassato sia quando posseduto che quando ceduto.

“Un intervento sulle tasse sulle compravendite – anziché sulle tasse sulla proprietà – di immobili avrebbe vantaggi sul piano della gestione e della tenuta dei conti pubblici. Ha un costo inferiore all’abolizione dell’Imu e parte del gettito perso con una riduzione dell’aliquota verrebbe compensato dall’aumento dei volumi di compravendite. Inoltre non aprirebbe voragini nei conti dei Comuni, richiedendo trasferimenti compensativi dal centro. Il gettito dell’imposta di registro va infatti alle casse dello Stato, che può più facilmente ovviare ad eventuali riduzioni del gettito”.