Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: “Dagli al giornalista”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 7 Maggio 2015 - 08:51 OLTRE 6 MESI FA
Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: "Dagli al giornalista"

La prima pagina del Fatto Quotidiano

ROMA – “Dagli al giornalista” è il titolo dell’articolo a firma di Marco Travaglio sulle pagine del Fatto Quotidiano di giovedì 7 maggio.

Confesso il mio doppio conflitto d’interessi: sono giornalista e sono anche uno di quelli spiati durante il governo Berlusconi-2 dal Sismi del generale Niccolò Pollari e del suo “analista” Pio Pompa e, per soprammercato, pure dalla cosiddetta Security della Telecom capitanata da Luciano Tavaroli (che in realtà lavorava in tandem con i servizi). Bene: a Perugia, nel silenzio generale, sta per concludersi il processo a Pio Pompa, nei cui uffici e appartamenti romani furono sequestrati nel 2007 ben 10 mila file. “In quei Cd, Dvd e hard-disk – ha ricordato il pm Massimo Casucci – sono stati rinvenuti dossier su giornalisti e magistrati, insieme a documenti su attentati e sulle questioni aperte riguardanti Iraq, Afghanistan e Nigergate. Quando è avvenuta la perquisizione, però, Pompa non faceva più parte dell’intelligence militare e dunque non poteva detenere quei file”. E perciò, dieci giorni fa, il pm ha chiesto la condanna di Pompa a 4 anni e mezzo di carcere per essersi procacciato documenti “atti a fornire notizie che nell’interesse della sicurezza dello Stato dovevano rimanere segrete”.

Ieri il sito del Fatto ha rivelato che, sentito come testimone, il generale Pollari – ex superiore di Pompa – ha invocato il segreto di Stato depositando una lettera che gli ha scritto Giampiero Massolo, direttore del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza della Presidenza del Consiglio (il Dis, che coordina i servizi segreti militare e civile). Che dice Masso-lo? Che anche il governo Renzi, come i precedenti, ha deciso di apporre il segreto di Stato e addirittura di ricorrere alla Corte costituzionale per mandare in fumo il processo a Pompa. Ora, nei dossier sequestrati nel 2007, emergeva un sistematico dossieraggio su magistrati, politici e giornalisti considerati “ostili” a Berlusconi, definiti “bracci armati” di non si sa quale Spectre e dunque da “disarticolare”, “neutralizzare”, “ridimensionare” e “dissuadere”, anche con “provvedimenti” e “misure traumatiche”. Davvero il governo Renzi ha così a cuore la libertà di stampa e di pensiero da impedire verità e giustizia anche su quell’oscura vicenda? È vero, noi giornalisti siamo una categoria malfamata. Ma ormai il primo che passa si sente autorizzato a prenderci a ceffoni senza che nessuno dica o faccia nulla. È di questi giorni l’incredibile vicenda dell’Unità, che il Pd vorrebbe rimandare in edicola con i soliti soldi pubblici, ma abbandonando al loro destino i giornalisti delle ultime gestioni, lasciati soli a difendersi da querele penali e cause civili, a pagarsi gli avvocati e addirittura a farsi pignorare le case e gli stipendi.

Ed è dell’altro giorno la sentenza del Tribunale di Roma che dà torto a Sandra Amurri, giornalista del Fatto Quotidiano, e ragione all’ex deputato Dc e poi Udc Calogero Mannino, tuttora imputato a Palermo per violenza o minaccia a corpo dello Stato nel processo sulla trattativa Stato-mafia. L’antefatto è noto, almeno ai nostri lettori. Il 21-12-2011 Sandra Amurri, trovandosi al Bar Giolitti di Roma, a due passi da Montecitorio, ascoltò casualmente una conversazione fra due politici. Uno lo riconobbe subito: Mannino. L’altro lo identificò poi dalle foto scattate con l’iPhone: Giuseppe Gargani. Sentì dire fra l’altro a Mannino: “Stavolta ci fottono: dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello, il padre, di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”. E a Gargani: “Certo, certo, stai tranquillo, non ti preoccupare, ci parlo io”. Un caso di scuola di inquinamento delle prove. La Amurri raccontò sul Fatto quanto aveva visto e sentito e, chiamata dai giudici di Palermo a testimoniare sotto giuramento, confermò tutto. Mannino la insultò: “Mitomane”, “spia”, “agente volontario in servizio della Stasi in Germania o del Kgb nell’Urss”, “fantasia eccitata”, “delirio”, “menzogna organizzata” (…)