Alfredino Rampi, Angelo Licheri racconta la tragedia: “Mi calai nel pozzo. Lo provai ad afferrare per i polsi”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 11 Giugno 2020 - 11:46 OLTRE 6 MESI FA
afredino rampi foto ansa

Alfredino Rampi (nella foto Ansa). Angelo Licheri racconta la tragedia: “Mi calai nel pozzo. Lo provai ad afferrare per i polsi”

ROMA – Angelo Licheri è stato ribattezzato “Uomo Ragno” dopo essersi calato, nel 1981, nel pozzo di Vermicino per provare a salvare Alfredino.

Il 19 giugno del 2019, in occasione dell’anniversario della morte di Alfredino che all’epoca aveva 6 anni, il settimanale Sette ha pubblicato un articolo che racconta quelle ore tragiche.

L’articolo è stato ora riproposto dal Corriere della Sera.

Alfredo Rampi era in vacanza con i suoi genitori nella casa di Vermicino in provincia di Roma. Il pomeriggio del 10 giugno, alla fine di una passeggiata con il padre Ferdinando, chiese se poteva tornare nei campi da solo.

Il padre acconsentì: due ore dopo Alfredino era scomparso. lungo quello stesso percorso c’erano decine di persone a chiamare il suo nome. 

Alfredo Rampi cade nel pozzo

A pensare che Alfredo si potesse trovare nel pozzo del terreno vicino casa fu la nonna. Sul pozzo c’era una lamiera e sulla lamiera delle pietre a tenerla ferma. A provare a vedere se il piccolo fosse lì dentro fu un agente di Polizia.

Dal fondo del pozzo arrivavano dei lamenti: Alfredo era là dentro.

Angelo Licheri, fattorino in una tipografia romana, all’epoca aveva 37 anni ed era padre di tre bimbi piccoli, esce di casa e si presenta a Vermicino. 

Sardo d’origine, stava assistendo alla televisione insime ad altri 32 milioni di italiani la diretta no stop della Rai sulle operazioni di salvataggio di quel bambino.

La sera del 12 giugno disse alla donna che allora era sua moglie: “Esco a prendere le sigarette”. La donna, confesserà anni dopo, lo vide uscire e le venne un pensiero: “Vuoi vedere che quel pazzo vuole andare a Vermicino?”.

Nelle ore precedenti lo aveva visto davanti allo specchio fare strane contorsioni con le braccia in alto. “Che fai?” aveva chiesto. “Niente, un po’ di ginnastica”, aveva risposto Licheri.

Licheri, dopo essersi calato nel pozzo, racconta che “il bambino era a 64 metri di profondità. Gli ho tolto il fango dagli occhi e dalla bocca e ho cominciato a parlargli, dolcemente”. 

“So che capiva tutto – racconta ancora Licheri -. Non riusciva a rispondere ma l’ho sentito rantolare e per me era quella la sua risposta. Quando smettevo di parlare rantolava più forte, come per dirmi: continua che ti sto ascoltando”.

“Dopo vari tentativi andati a vuoto, l’ultimo che ho fatto è stato prenderlo per la canottierina, ma appena hanno cominciato a tirare ho sentito che cedeva… E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via. Ciao piccolino”.

Angelo Licheri, nelle foto scattate appena uscito dal pozzo, aveva le guance rigate da lacrime e fango e la pelle scorticata.

Ovunque c’era sangue provocato dalle lacerazioni alle gambe, alle braccia, alla schiena.

Licheri aveva però una ferita ancora più grande: quella di non essere riuscito a soccorrrere Alfredino quella sera del 10 giugno 1981.

Angelo decise di andare in quel luogo che non conosceva. Il Corriere della Sera racconta il motivo della scelta di andare là:

” Ma cos’altro poteva essere quella strana ginnastica se non prove immaginarie di movimenti nel pozzo? Lei non disse nulla ma capì. Anche perché era una delle poche persone a sapere di una vecchia avventura di Angelo, tanti anni prima”.

“C’era stato un incendio sui monti dalle parti di Nuoro e lui, come tutti, stava scappando. Ma si ricordò che lassù c’era una colonia di bambini e allora si mise in mezzo alla strada a urlare agli automobilisti che tornassero indietro a salvarli”.

“Lui stesso lo fece caricando quelli che poteva sulla sella del suo motorino. ‘Adesso per colpa del diabete non ho più una gamba e sono quasi cieco, ma davanti ai bambini che hanno bisogno di aiuto sarei capace di fare qualsiasi cosa anche così malmesso’, giura quest’uomo che sembra ancora più piccolo di quanto lo descrissero le cronache dal pozzo di Vermicino”.

Angelo racconta di non sapere nemmeno dove fosse quel posto e di essersi fatto l’ultimo tratto a piedi.

Dopo essere arrivato davanti al blocco, non è riuscito a passare.

Dopo aver costeggiato una vigna è arrivato davanti al cordone dei militari.

Per passare ha raccontato che lo stava aspettando il capo dei pompieri.

Angelo racconta: “Puoi andare a dirgli che è arrivato Angelo? Lui è andato e io mi sono infilato fra i soccorritori”.

“In mezzo a loro c’era Franca, la mamma di Alfredino. Al capo dei Bigili del Fuoco ho detto: sono piccolo, fatemi scendere. E lui: lei è troppo emotivo. Ha qualche malattia, qualche problema… L’ho interrotto. Gli ho detto: senta, io sto benissimo, voglio solo scendere. La mia determinazione è stata più forte dei loro no alla fine l’ho vinta io”.

La notte fra il 12 e il 13 giugno, dopo una discesa nel pozzo durata 20 minuti che via via si fa più stretta, Angelo raggiunse Alfredino. La luce della sua torcia illuminò quel bambino incastrato in un punto largo 28 centimetri.

“Gli tolsi il fango dagli occhietti e dalla bocca e cominciai a fargli promesse che avrei senz’altro mantenuto. Gli dissi: ho tre bambini e uno è più piccolo di te. Hanno tutti la bicicletta”.

“Sai che facciamo? Appena usciamo ne compro una anche a te, vedrai che sarai orgoglioso di questa bici nuova. E poi ti compro anche una barchetta, mi hanno detto che sai pescare bene.Lui emetteva quel rantolo che è qui, nella mia testa”.

Lo imbragò una prima volta e diede il segnale alla squadra. Lo strattone fu troppo forte e la cinghia scivolò fuori dalle braccia. Nel secondo tentativo fu il moschettone a sganciarsi. “Ho provato a prenderlo per i gomiti ma niente, non si riusciva”.

“Alla fine l’ho afferrato per i polsi e nel tentativo di tirarlo su gli ho rotto quello sinistro. Ho sentito un lamento, lieve. Non aveva più forze, povera creatura. Gli ho detto: dopo tutta la sofferenza che hai patito ci mancavo proprio io a farti ancora più male”.

Angelo è rimasto nel pozzo a testa in giù per 45 minuti.

Alla fine, racconta ancora il 75enne che oggi vive in una casa di riposo a Nettuno in provincia di Roma, “gli ho mandato un bacino e sono venuto via”.  

Licheri a quel punto è stato tirato su:

“Quando mi tirarono su mi ritrovai davanti alla mamma di Alfredino. Venne da me e mise le sue mani sulle mie guance: mi dica come sta il mio bambino, chiese. Io fui sincero: signora, è ancora vivo ma se non si fa in fretta non so quanto potrà resistere. Ancora oggi ogni tanto la sento per un saluto”.

Alfredino morì poche ore dopo.

Angelo ricorda ancora tutto. “Per anni”, racconta lui, “ho sognato la morte con la falce sulle spalle che veniva a prenderlo. Io stavo lì a proteggere un pozzo e le dicevo: lo vuoi? Devi fare la guerra con me se lo vuoi. Lei se ne andava ridendo e mi diceva: ci rivedremo” (fonte: Corriere della Sera).