Kabobo killer, il cittadino “No Stato” non chiama la polizia

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 13 Maggio 2013 - 14:29 OLTRE 6 MESI FA

Mada Kabobo

MILANO – Un’ora e mezza circa, novanta minuti. Tanto è il tempo trascorso tra la prima aggressione di Mada Kabobo e la sua prima vittima. Un lasso di tempo, uguale all’incirca a quello di una partita di calcio, in cui almeno tre persone, i primi tre aggrediti, avrebbero potuto dare l’allarme.

Almeno tre perché, nonostante l’ora, tra le 5 e le 6 del mattino di sabato, è impossibile stabilire quanti altri, dalle finestre, da un’auto di passaggio e simili avrebbero potuto fare altrettanto. E invece nulla, silenzio, la prima telefonata al 112 arriva solo alle 6.28, quando ormai Kabobo ha già ucciso una persona e ne ha ferite gravemente altre due, di cui una deceduta questa mattina (13 maggio).

“È assolutamente incomprensibile che nessuno abbia avvisato le forze dell’ordine”, ha sottolineato anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. Ed è effettivamente al limite del comprensibile immaginare come possa per un’ora e mezza muoversi per le strade del quartiere Niguarda di Milano una persona di colore, non in giacca e cravatta e con un piccone in mano, senza che nessuno si preoccupi. Non esattamente quello che si dice un soggetto rassicurante e soprattutto non riconoscibile come pericoloso.

Un’ora e mezza di silenzio. Un’ora e mezzo in cui chi è stato aggredito e, per alcuni versi anche a maggior ragione chi solo è stato testimone delle aggressioni, non ha dato l’allarme. Avrebbero potuto farlo ma non la hanno fatto. L’aggressore avrebbe potuto essere fermato prima e, probabilmente, il bilancio della sua follia sarebbe stato molto meno pesante. Perché nessuno ha avvertito le forze dell’ordine è un interrogativo legittimo. Ma se una risposta, una motivazione credibile e socialmente comprensibile è quella attribuibile ai tre primi aggrediti, feriti in modo lieve, e cioè che per causa dello shock subito non hanno ragionato a mente lucida su quello che stava accadendo, diverse devono essere le ragioni di tutti i potenziali testimoni che altrettanto immoti sono stati.

In questo caso, nel caso delle persone che hanno assistito alle aggressioni, compresi quelli che hanno soccorso o a cui si sono rivolti i primi tre aggrediti, lo shock poco o nulla c’entra. Nel pieno delle loro facoltà mentali, nel pieno della lucidità non hanno, comunque, pensato ad avvertire le autorità. Non lo hanno fatto perché la coesione sociale, la solidarietà e il bene comune nella nostra società, nelle grandi città e in particolare in un Paese come il nostro che sta attraversando un momento come quello attuale, sono ai minimi storici e il loro opposto, il sentimento antistato è fortemente diffuso. Così diffuso da aver assolutamente permeato le coscienze che, quando non vivono come ostile lo Stato cattivo che si intromette nelle loro vite e nelle loro tasche con le tasse, almeno come inutile lo percepiscono.

Per questo il “cittadino No Stato” non chiama la polizia. Non la chiama perché se è al sicuro lui, non sente il bisogno di mettere al sicuro gli altri. E non lo chiama anche perché nello Stato comunque non ha fiducia.

Lo psichiatra Vittorino Andreoli, sentito dal Corriere della Sera, ha provato a spiegare: “Il centro della questione è la paura: chi corre un pericolo mortale si concentra solo sulla sua sopravvivenza, non pensa a nient’altro. Quando c’è di mezzo la vita prevalgono le dinamiche animali. Queste persone non hanno nemmeno immaginato che altri potessero correre lo stesso rischio”. Piuttosto, si domanda, “dov’erano gli altri?”. “Milano è Milano. Siamo sicuri che alle finestre non ci fosse nessuno? Che nessuno abbia visto niente? Qui sì che mancano il senso sociale e la fiducia nelle forze dell’ordine, percepite solo come inquirenti”.

Il problema, continua Andreoli, è proprio questo: “Viviamo nella società dell’io, incapaci di capire che l’io sta bene solo se gli altri stanno bene. Quello che è successo a Niguarda non va affrontato pensando solo a sei persone, ma guardando in faccia la collettività e i suoi principi. Credo che troppi abbiano voltato lo sguardo”. Mauro Magatti, che in Cattolica insegna sociologia, aggiunge: “Facciamo parte di una società individualista con uno scarso senso della cosa pubblica, come conferma l’episodio di sabato mattina”. E la “dimensione che ci vede cittadini attivi a fianco delle forze dell’ordine è in Italia ai minimi storici”.

Le prime tre vittime, aggredite tra le 5 e le 6, hanno spiegato perché non hanno chiamato la polizia o i carabinieri. Andrea Carfora, colpito da Kabobo con una sprangata su un braccio in via Terruggia prima delle 5, il primo aggredito, è scappato nei giardini e poi è rientrato in casa, presentandosi al pronto soccorso solo molto più tardi: “Sono stati momenti di terrore. Ho pensato solo a fuggire, sinceramente non so perché non mi sia venuto in mente di chiamare le forze dell’ordine”. Antonio Niro, colpito alle 5 e 20 alle spalle, non si è accorto di cosa gli fosse successo: “Sono crollato a terra, ho battuto col volto sull’asfalto, ho perso gli occhiali e mi sono rotto il naso. Sono svenuto e quando ho ripreso conoscenza la strada era deserta”. “Per questo – ha spiegato la moglie – non abbiamo pensato di avvertire i carabinieri, ma solo l’ambulanza. In ospedale, quando sono arrivati altri feriti, abbiamo capito”. Antonio Morisco, seguito alle spalle da Kabobo, è fuggito nel portone del suo palazzo prima di essere raggiunto: “Mi aveva spaventato, ma non ho pensato a quello che poteva succedere. Per me era solo un tipo strano con qualcosa che assomigliava un bastone. Come potevo prevedere cosa avrebbe fatto dopo?”.

Né loro né nessun altro ha chiamato i carabinieri sino alle 6.28, quando ormai la follia di Kabobo avevano raggiunto altre tre vittime, uccidendone due e ferendone gravemente un’altra. Avrebbero potuto, anzi avrebbero dovuto chiamare la polizia. Non l’hanno fatto e per questo non sono colpevoli di nulla. Sono però la prova vivente di un’altra grande, gigantesca insicurezza che pesa sulla nostra vita collettiva: la sparizione della solidarietà, del senso stesso della vita sociale. Tutti hanno cercato salvezza e riparo o sicurezza solo dentro casa loro e solo per loro: reazione istintiva di solitari membri di una vastissima tribù dispersa.