Un mostro ha detto del figlio la mamma di Alessandro Impagnatiello. Di certo un assassino che ha confessato. Assassino di una donna che era incinta di un figlio suo. Assassino che ha finto dolore e ansia perché la donna che aveva ucciso ovviamente era introvabile. Assassino che ha cercato di bruciare il cadavere, poi lo ha buttato via come immondizia. E nel frattempo mandava messaggi dal suo smartphone alla donna che aveva ucciso per fingere stesse contribuendo a cercarla. Assassino maschio che si libera della donna che non obbedisce e intralcia, ostacola, complica la vita come lui la vuole. Assassino feroce, uomo minimo ma mostro nel senso di sostanza inumana e di fenomeno assolutamente fuor di umana norma e cifra? Purtroppo nell’idea, nel valore, nella cultura che la donna sia “cosa” del maschio una volta stabilita la coppia non vi è nulla di indicibilmente eccezionale, di statisticamente irrilevabile. Se “mostro” è questo assassino, ampio è il terreno, ampio e noto è il terreno popolato da mostri e coincide in parte con la terra in cui viviamo tutti. Dirsi che solo “mostri” ammazzano la femmina perché disobbedisce, turba e, niente meno, si ribella alla sua natura di maschile proprietà implica dirsi che qui in Italia ogni tre giorni si mette all’opera un “mostro”. Dire “mostro” è in fondo tirare un sospiro di sollievo. Immotivato e artificioso, ma sospiro di sollievo: i “mostri” non son forse fatti di natura che umana non è?
Una mostruosità … collettiva
Eppure in questa tragedia umana una evidente mostruosità c’è. Quella non rilevata come tale. Una mostruosità collettiva e forse proprio per questo non rilevata. Ha detto l’assassino: “Ho ucciso per stress”. E nessuno lo ha certo assolto per questo. Ma al tempo stesso nessuno ha esplicitamente trovato incongruo chiamare in causa l’astratta e onnicomprensiva categoria (ormai dello spirito) detta stress. Un assassino può dunque chiamare in causa lo stress non come attenuante questo no. Ma come circostanza per così dire ambientale questo sì. Ed è questa la mostruosità collettiva: l’uso della parola stress come parola magica. Parola magica con cui ci si pone sotto protezione di una presunta e farlocca medicalizzazione delle proprie azioni. Parola magica con cui si legittimano o giustificano le proprie voglie la cui incontenibilità è imputata allo…stress. Parola magica che ci scansa ed esime da ogni responsabilità individuale. Parola vezzo con cui si maschera come ingenuo il proprio atto di sopraffazione. Parola magica che ci dà salvacondotto per la qualunque. Parola magica che sdogana l’ingordigia. Parola magica che espelle e annichilisce ogni forma di dovere nell’agire. La comunicazione di massa non ha fatto una piega nel recepire e diffondere la formula “ho ucciso per stress” e non risulta la pubblica opinione abbia fatto diversamente. Ci siamo talmente assuefatti all’uso dello stress come alibi per talmente tanti comparti e parti delle nostre vite che non ci suona indicibile in nessun caso. Alibi, non certo da estendere all’omicidio ma alibi per ogni nostra asocialità sì. Alibi incolto, rozzo. Ma di grande efficacia comunicativa. Ed è questa la mostruosità collettiva: essersi inventati, essersi accomodati sotto la protezione di una liturgia che ci proclama tutti vittime innocenti, ciascuno dei suo stress. E, sotto stress, a qualcuno magari scappa un raptus. Il giorno, lontanissimo, in cui la comunicazione bandirà come impropri e bugiardi i termini stress e raptus, quel giorno le donne saranno di sicuro un po’ più rispettate al sicuro dai “mostri”.
Forse dovresti anche sapere che…