Il mistero di Emanuela Orlandi a una svolta? Pino Nicotri spiega come dopo (42 anni di indagini) - Blitzquotidiano.it (foto ANSA)
Mistero Orlandi a una svolta? Il TG1 delle 20 di venerdi 5 dicembre ha reso conto della “pista zio Mario Meneguzzi”, perseguita in silenzio negli ultimi anni dai magistrati romani e resa clamorosamente nota da Massimo Giletti nella puntata di lunedi 1 dicembre del suo programma Lo stato delle cose.
Il TG1 ha ricordato che tale indagine nasce dalla forte somiglianza del viso di Mario Meneguzzi con l’identikit tracciato a suo tempo dal vigile urbano Alfredo Sambuco di un uomo che a suo dire il 22 giugno ’83, poco prima della scomparsa di Emanuela, parlava con lei di fronte al Senato. Vale a dire, a pochi metri dalla scuola di musica Ludovico da Victoria frequentata da Emanuela.
Forte somiglianza messa in risalto da me in due articoli per blitzquotidiano.it e rilanciata con fragore nel luglio 2023 sia dal TG1, che mi intervistò, sia dal TG7 di Enrico Mentana quando venne fuori la storia delle “attenzioni morbose” di zio Mario, sposato e con tre figli, nel ’78 alla giovanissima nipote Natalina, sorella maggiore di Emanuela.
Questa volta però il TG1 ha evitato di ricordare il ruolo mio e di blitzquotidiano.it nella nascita di tale pista. Nulla di male: può succedere.
En passant: di recente a Verissimo, programma di Canale 5 condotto da Silvia Toffanin, Pietro Orlandi ha detto che Mentana si è poi scusato con lui perché s’è reso conto di “essere stato usato”, ovviamente “per coprire le responsabiltià del Vaticano”. Ho interpellato Mentana, che mi ha escluso di avere chiesto scusa.
Stando così le cose, abbiamo ritenuto opportuno inviare ai magistrati romani e alla Commissione parlamentare di inchiesta su Emanuela Orlandi e Mirella Gregori anche il seguente testo. Che mette meglio in luce rispetto a nostri testi precedenti gli strani errori commessi da Mario Meneguzzi con la stampa nei primissimi giorni dopo la scomparsa della nipote e le cose che non quadrano nel suo alibi relativo a quel maledetto 22 giugno 1983.
ERRORI CON LA STAMPA DELLO ZIO MENEGUZZI E LA SUA INVENZIONE DEL TIMORE DI RAPIMENTI

1) – Nel lancio che il 24 giugno Meneguzzi fa fare all’agenzia di stampa ANSA – lancio col numero U ALR 02 16 QBXB – c’è scritto che Emanuela era uscita dal conservatorio di S. Cecilia, che in realtà dista due chilometri dalla scuola di musica Ludovico da Victoria frequentata da Emanuela e da dove era uscita il tardo pomeriggio del 22 giugno 1983.
Perciò nessuno può averla vista dalle parti del S. Cecilia e anche se qualcuno l’ha vista dalle parti del Da Victoria non si rende conto che è lei perché non è vicina al S. Cecilia.
2) – Natalina Orlandi sporge denuncia di scomparsa alle 7,30 della mattina del 23, mentre Mario Meneguzzi nel pomeriggio porta il testo di un appello nelle redazioni dei giornali Paese Sera, Il Messaggero e il Tempo. L’appello esce il 24 su Il tempo e il 25 sugli altri due giornali. Il testo, striminziato, è il medesimo:
“Dalle ore 19.15 del 22 giugno si sono perse le tracce di Emanuela Orlandi, 15 anni, vista per l’ultima volta da due compagne di scuola in corso del Rinascimento, di fronte al Senato. Emanuela è alta 1,65, corporatura snella, occhi marrone, capelli castano-scuri lunghi. Indossa pantaloni jeans con bretelle, camicetta bianca, e ha una borsa di cuoio e un astuccio nero rettangolare dove tiene un flauto. Chi l’avesse vista o ne avesse notizie, può telefonare al numero 69.84.982 [il numero di telefono di casa Orlandi, nda]”.
Come si vede, negli annunci dei tre giornali non c’è nessun cenno al timore di rapimenti e si legge che Emanuela aveva le bretelle, cosa che non figura invece nel comunicato ANSA: e già questo è un elemento che crea confusione. Anche perché Natalina nella denuncia di scomparsa fatta la mattima del 23 dice che Emanuela aveva i jeans, ma non parla di bretelle. Idem il grande manifesto incollato in 3.000 copie in tutta Roma.
I casi perciò sono solo due:
– se Emanuela aveva davvero le bretelle, come faceva lo zio a saperlo?
– se invece non le aveva, la sua è una segnalazione fuorviante. Chi eventualmente ha visto Emanuela ha visto una ragazza senza le bretelle, perciò è indotto a pensare che non sia lei.
3) – L’appello dei giornali afferma che Emanuela “ha una borsa di cuoio e un astuccio nero rettangolare dove tiene un flauto”. La borsa di cuoio si presume sia portata impugnandone il manico e l’astuccio col flauto si presume fosse dentro la borsa. Amici di Pietro Orlandi sostengono invece di avere saputo da lui che Emanuela aveva “una tracolla del tipo Tolfa”.
Da notare che il poliziotto Bruno Bosco afferma di avere visto una ragazza che poteva essere Emanuela parlare con un uomo che a un certo punto ha poggiato sul cofano di un’auto “un tascapane di tipo militare” per aprirlo e mostrare alla ragazza quelli che parevano campioncini forse di cosmetici.
Vista dalla distanza di circa 20 metri da dove si trovava Bosco, una tracolla tipo Tolfa può somigliare a un “tascapane di tipo militare” più di una borsa di cuoio. Peraltro nel corso di pochi anni il “tascapane di tipo militare” negli atti giudiziari diventa misteriosamente “una valigetta 24 ore”.
4) – Nel lancio Ansa si legge che Ercole Orlandi e i suoi colleghi temevano rapimenti. Non può essere vero perché altrimenti non si spiega come mai Pietro Orlandi rifiuti la richiesta di Emanuela di portarlo in moto alla scuola di musica e si sia dimenticato di andarla a prendere.
Immediatamente dopo il verbale della sorella Maria Cristina interrogata dai magistrati lui verbalizza che ricordava che avrebbe dovuto andare a prenderla. Però NON ci è andato. Strana dimenticanza in presenza di un asserito timore di rapimenti.
Inoltre Emanuela ha continuato ad andare e venire da sola anche dal liceo scientifico come del resto gli altri ragazzi che andavano anche loro a scuola fuori dal Vaticano. Dobbiamo inoltre ricordare che i ragazzini suoi amici vanno ad aspettarla dalle parti di Castel Sant’Angelo senza la protezione di adulti. Altra PROVA che nessuno in Vaticano temeva rapimenti.
5) – A smentire che avesse timore di rapimenti è lo stesso Ercole Orlandi, padre di Emanuela. La smentita di Ercole è contenuta nell’articolo di Stampa Sera del 29 maggio 1985 intitolato “La madre di Emanuela Orlandi “Spero che Agca dica il vero”” e che ha per occhiello “Il terrorista ha affermato che la ragazza è viva”. Quella di Ercole è una smentita netta:
“Non ci saremmo mai aspettati che Emanuela finisse in un complotto internazionale. La nostra vita si è svolta sempre qui, in Vaticano. Mai avevamo avuto paura che i nostri figli potessero essere sequestrati perché soldi non ne abbiamo. Ne avevamo parlato proprio un mese prima del rapimento di Emanuela, quando si seppe della scomparsa di Mirella Gregori”.
L’ALIBI DELLO ZIO MARIO MENEGUZZI
6) – Tra le ore 21-21,30 della telefonata di Ercole a casa Meneguzzi di Roma, dove risponde il figlio Pietro Meneguzzi, e le 24, quando Ercole trova al telefono Mario a Torano , c’è un buco di quasi tre ore. DIFFICILE che Ercole non lo abbia chiamato ANCHE prima. È strano che non lo abbia cercato neppure il figlio Pietro.
Elettra Orlandi, figlia di Pietro, dopo le rivelazioni riguardanti le “attenzioni morbose” di zio Mario, ha sostenuto che Torano dista da Roma ben 200 chilometri e quindi è impossibile che Mario Meneguzzi possa essere andato a Roma a prendere Emanuela e poi tornare per cena a casa a Torano.
Tra Roma e Torano però i chilometri non sono 200, ma poco meno della metà. Inoltre che lo zio fosse a cena non è certo in modo assoluto. Intanto perché Ercole lo ha trovato al telefono verso mezzanotte. E poi perché le testimonianze degli asseriti commensali e dello stesso Mario Meneguzzi non sono credibili per il semplice motivo che loro sostengono che a cena a Torano ci fosse anche zia Anna Orlandi, sorella di Ercole, mentre Pietro Orlandi nel suo libro del 2012 – scritto con il giornalista Fabrizio Peronaci e intitolato “Mia sorella Emanuela – Voglio tutta la verità” – ha scritto che la zia Anna era in Vaticano a preparare la pizza con mamma Maria: nella casa dove Anna abitava con la famiglia di Ercole.
Inoltre: se fosse vero che zia Anna stava a Torano dai Meneguzzi lo avrebbe dovuto sapere anche Ercole, visto che abitavano assieme, quindi non si spiega perché Ercole abbia invece cercato Mario a casa sua a Roma. Tieniamo presente, ripeto, che Pietro nel libro scritto con Peronaci “Mia sorella Emanuela – Voglio tutta la verità” sostiene che la cara zia Anna, sorella di Ercole e abitante a casa di suo fratello, cioè degli Orlandi, era a casa in Vaticano a preparare la pizza con mamma Maria. Possibile che nessuno degli Orlandi e dei Meneguzzi si sia accorto dell’errore?
7) – La foto scelta per il grande manifesto è una foto che a tutto serve fuorché a individuare Emanuela. Intanto perché Emanuela quel giorno non portava la fascetta sulla fronte. E poi perché l’ampio sorriso dà una immagine del viso diversa da quella normale. Difficile che Emanuela andasse in giro sempre ridendo o sorridendo. Senza contare che, a detta di molti, quella foto comunque non somiglia alle altre foto in circolazione di Emanuela.
8) – Tra le ore 21,30-22 di quel 22 giugno, quando Ercole Orlandi telefona a casa di Mario Meneguzzi di Roma – al chilometro 13 della via Aurelia, nei pressi del vivaio Ciccarelli – dove risponde il figlio Pietro Meneguzzi, e le ore 24, quando Ercole trova al telefono Mario Meneguzzi a Torano, c’è un buco di due ore/due ore e mezzo. DIFFICILE che Ercole non abbia cercato al telefono il cognato Mario ANCHE prima di mezzanotte. E sarebbe strano che non lo avesse cercato neppure Pietro Meneguzzi, che per telefonare a suo padre non aveva neppure bisogno di uscirei di casa per cercare un bar o una cabina telefonica.
Intanto ci si pone una prima domanda: perché Ercole per cercare Emanuela telefona a suo cognato Mario per chiedergli se ne ha notizie? E perché non le chiede a Pietro Meneguzzi, che gli ha risposto al telefono e ha detto che suo padre “è in montagna”, cioè a Torano?
Se fosse vero che, come sostengono oggi i Meneguzzi e lo stesso Pietro Orlandi, zia Anna Orlandi stava a Torano, perché Ercole cerca suo cognato Mario a casa sua a Roma anziché direttamente a Torano?
È ovvio che se Anna, abitante in Vaticano in casa degli Orlandi, fosse andata a Torano da Mario Meneguzzi, suo fratello Ercole doveva saperlo. Quindi non avrebbe cercato il cognato Mario a casa sua a Roma, ma gli avrebbe telefonato direttamente a Torano.
Mario Meneguzzi nell’ottobre ’85 ha sostenuto col magistrato Ilario Martella di esserci andato con la moglie Lucia Orlandi, anche lei sorella di Ercole, la figlia Monica e la zia Anna, il giorno prima della scomparsa di Emanuela.
La presenza di zia Anna a Tornao è stata ribadita sul Corriere della Sera da un articolo di Fabrizio Peronaci del 21 aprile 2023 intitolato “Aspetto a morire per sapere dov’è”.
Elettra Orlandi, figlia di Pietro, dopo le rivelazioni riguardanti la “attenzioni morbose” di zio Mario nei confronti della nipote Natalina, ha sostenuto che Torano dista da Roma ben 200 chilometri e quindi è impossibile che Mario Meneguzzi possa essere andato a Roma a prendere Emanuela e poi tornare per cena a casa a Torano. Tra Roma e Torano i chilometri non sono 200, ma poco meno della metà. E anche ammesso che Mario Meneguzzi fosse a cena a Tornao – ma a che ora? – il problema è che nessuno ha saputo dire dove fosse con certezza prima di cena. Inoltre che lo zio fosse a cena non è certo in modo incontestabile. Perché? Perché Ercole lo ha trovato al telefono solo verso mezzanotte.
E perché, come abbiamo visto, è evidente che la zia Anna in realtà stava a Roma, in casa Orlandi, come scritto da Pietro e Peronaci nel loro libro del 2012 e ribadito da Peronaci nel suo articolo del 21 aprile 2023, cioè 11 anni dopo. Se zia Anna fosse stata davvero a Torano e non a Roma non è credibile che per 11 anni nessuno degli Orlandi e Meneguzzi si sia mai accorto dell’errore. A maggior motivo non è credibile che ricordino invece improvvisamente bene il particolare dopo ben 42 anni e mezzo.
Ammettiamo ora che zia Anna fosse davvero a Torano. Se ne deve dedurre che Pietro Orlandi nel libro del 2012 ha sbagliato a dire che era in casa in Vaticano e che ha sbagliato anche Peronaci nel ribadirlo il 21 aprile 2023 senza che Pietro lo abbia smentito. Se ne deve dedurre che quanto affermato da Pietro è comunque non credibile. Cosa che del resto è dimostrata da varie sue affermazioni fatte soprattutto in televisione, compresa l’ultima a Verissimo sulle scuse di Mentana.
8 bis) – La faccenda dell’alibi di Torano però si complica perché Marino Vulpiani, con genitori abitanti a Torano, all’epoca e ancora oggi amico di Federica Orlandi (sorella con qualche anno più di Emanuela), che frequentava anche in vacanza a Torano, nell’audizione del 6 febbraioscorso, 2025, rispondendo al presidente De Priamo ha detto dei Meneguzzi: “Mi pare che a Torano avessero preso DUE CASE in affitto o avessero comprato DUE CASE”.
La frase quadra con quanto la giornalista Francesca Ronchin – del programma Lo stato dello cose, condotto su Rai3 da Massimo Giletti – ha saputo dal poliziotto in pensione che l’ha accompagnata nel recente sopralluogo a Torano.
Arrivati davanti alla casa che tutti indicano come dei Meneguzzi all’epoca, ha detto che non è quella, piuttosto appartata, nella quale lui e un suo collega pedinando Meneguzzi lo vedevano entrare e uscire sempre da solo.
La frase di Vulpiani quadra anche con quanto detto da Pietro Orlandi come vedremo tra poche riche.
Controllando l’elenco telefonico del 1983 del Comune di Borgorose, del quale Torano fa parte, si scopre che a Mario Meneguzzi era intestata solo l’utenza col numero 35056 in via Piè di Trio a Torano. Non c’è nessun’altra utenza intestata a lui. Neppure in località Spedino, altra frazione di Borgorose, nella quale in particolare anche Pietro Orlandi ha detto che zio Mario aveva casa: “Quel giorno era in vacanza a Spedino, vicino a Torano, il paese dove andava la famiglia. Il che taglia la testa al toro [….]. Tra l’altro la sera della scomparsa di Emanuela, nostro padre telefonò per primo proprio allo zio, al telefono fisso del paese”.
Il problema è che, come abbiamo appena detto, a Spedino non c’era nessun telefono (e i telefonini cellulari non esistevano ancora): ecco un’altro grossolano errore di Pietro Orlandi.
MARIO MENEGUZZI PEDINATO E CON TELEFONI INTERCETTATI PER DUE ANNI CONSECUTIVI
Tutto ciò spiega due cose.
9) – Spiega perché Domenico Sica dopo avere saputo delle avance di Mario Meneguzzi nei confronti della nipote Natalina Orlandi abbia ordinato il suo pedinamento non solo per vedere se venisse eventualmente contattato dai “rapitori”.
Come è noto, Meneguzzi a S. Marinella, dove aveva casa al mare, si accorse di essere pedinato da due uomini in auto, ma anziché chiedere loro se fossero emissari dei rapitori o rivolgersi comunque alla magistratura si rivolse a un giovane poliziotto appena entrato a far parte dei servizi segreti civili, Giulio Gangi, amico di famiglia e innamoratissimo di Monica Meneguzzi, figlia di Mario. Gangi fece l’errore madornale di avvisare ( https://archivio.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/emanuela-orlandi-cosa-pensava-il-giudice-sica-40-anni-fa-e-capaldo-domande-senza-risposta-3555305/ ) Mario che la targa dell’auto dei due uomini che lo seguivano era “coperta”, cioè in uso a polizia o carabinieri o servizi segreti. E in questo modo mandò all’aria ogni seria possibilità di ulteriori indagini anche a Torano. Meneguzzi infatti deve aver pensato che lo pedinassero anche lì oltre che probabilmente anche a Roma e che avesse i telefoni delle varie case sotto controllo.
10) – Spiega anche perché, cosa fino ad oggi ignota, i telefoni delle varie case di Mario Meneguzzi tra una proroga e l’altra sono stati intercettati per due anni di fila. Assieme al verbale dell’interrogatorio di Mario Meneguzzi fatto dal magistrato Ilario Martella il 31 ottobre 1985. Si tratta del verbale nel quale sostiene di essere andato a Torano con la moglie Lucia Orlandi, anche lei sorella di Ercole, la figlia Monica e la zia Anna, il giorno prima della scomparsa di Emanuela. I brogliacci di queste intercettazioni sono finiti nel cosiddetto stralcio Bonarelli. Di che si tratta? Andiamo per ordine.
Dalla iniziale competenza del magistrato Margherita Gerunda, dopo poche settimane l’inchiesta passò al suo collega Domenico Sica, che la proseguì con il rito sommario fino al 1985, anno in cui, con decreto del 27 marzo, la Procura generale di Roma la avocò imponendo la formale istruzione.
Il rito formale comportò la competenza di un nuovo pubblico ministero, Antonio Albano, e del giudice istruttore Ilario Martella, fino al 1990. Dopodiché subentrarono, fino al 1997, il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba e il giudice istruttore Adele Rando, che operò lo stralcio “Bonarelli-Vaticano” del quale si sono in seguito occupati i pubblici ministeri Lucia Lotti e Simona Maisto.
Il 24 ottobre 1989, con l’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale, l’inchiesta aveva potuto proseguire secondo le norme del Codice precedente data la gravità dei reati contestati (sequestro di persona contro ignoti, e concorso per lo stesso reato nei confronti del funzionario della Vigilanza vaticana Raoul Bonarelli).
Tuttavia, allo scopo di evitare la mannaia della scadenza termini prevista per le istruttorie formali, appositi decreti legislativi ne avevano prolungato la validità. L’ultima proroga è scaduta il 30 giugno 1997, e il giudice istruttore Rando ha dovuto depositare gli atti il 5 luglio 1997, informandone la Procura generale per la requisitoria, depositata dal sostituto Malerba un mese dopo, il 5 agosto, con la richiesta di proscioglimento per tutti gli imputati.
Con la sentenza del successivo 19 dicembre Rando accoglieva la richiesta, escluso il solo Bonarelli, per il quale invece disponeva lo stralcio basato su una serie di atti giudiziari già acquisiti: in particolare, quelli contenenti una serie di testimonianze, compresa quella di Meneguzzi e i brogliacci delle intercettazioni.
Lo stralcio Bonarelli venne assegnato al magistrato Lucia Lotti e alla collega Simona Maisto, e finì nel nulla perché essendo cambiata per legge la figura del giudice istruttore a un certo punto non si sapeva più chi e come dovesse proseguire l’inchiesta stralcio e a chi poi dovessero essere infine consegnate le conclusioni.
Come che sia, lo stralcio viene infine archiviato dal GIP (Giudice per le Indagini Preliminari) nel 2009. Ne parla il GIP Giovanni Giorgianni nell’ordinanza con la quale nell’ottobre 2015 ha archiviato per mancanza di indizi la nuova inchiesta nata dalle “rivelazioni” del fotografo Marco Fassoni Accetti, falso “reso confesso” del rapimento di Emanuela.
Riferendosi allo stralcio Bonarelli deciso da Adele Rando, Giorgianni con linguaggio burocratico e sigle incomprensibili per i non magistrati ne descrive il complicato labirinto, nel quale lo stralcio probabilmente si è perso:
“Contestualmente alla sentenza di proscioglimento il G.I. [Giudice Istruttore: Adele Rando] disponeva, con provvedimento di stralcio del 26 settembre 1997, approfondimenti istruttori su alcuni profili investigativi non suscettibili di essere definiti con la sentenza di proscioglimento. A seguito del provvedimento di stralcio veniva inizialmente iscritto il procedimento n. 2847/98 F.N.C.R., poi confluito nel procedimento n. 14212/00 R.G.N.R. contro ignoti, a sua volta confluito nel procedimento n. 34016/2002 R.G.N.R. iscritto contro noti a carico di Bonarelli Raul, definito con decreto di archiviazione in data 03.02.2009 (contestualmente alla definizione del procedimento n. 34016/2002, veniva operato uno stralcio e iscritto il procedimento n. 34685/08 contro ignoti, poi confluito nel procedimento n. 8362/2015 PCNR riunito al procedimento n. 11694/2010 R.G.N.R.)”.
POST SCRIPTUM
Poiché sono sempre e comunque garantista, ci tengo a precisare che in assenza di condanna Mario Meneguzzi deve essere considerato innocente. L’articolo 27 della Costituzione italiana, l’articolo 48 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e la Carta dei Diritti dell’Uomo dell’ONU stabiliscono che in assenza di condanne una persona deve essere considerata innocente. Di conseguenza io mi limito a raccontare FATTI. Senza mai trarre conclusioni indebite e rinunciando così già in partenza al sensazonalismo.
Lo stesso comportamento dovrebbe essere tenuto da tutti anche nei confronti del famoso Enrico “Renatino” De Pedis, incensurato e anche senza carichi pendenti fino al giorno in cui l’hanno ucciso. Comportamento che però NON è tenuto da nessuno, tant’è che definirlo “capo” o “boss” della molto mitizzata Banda della Magliana è diventato un obbligo e uno sport nazionale. Che a causa degli anni e anni di dolore inflitti alla vedova Carla Di Giovanni hanno finito con l’ucciderla.
