Marchionne, smentisco dunque sono

di Mauro Coppini
Pubblicato il 2 Dicembre 2011 - 16:26| Aggiornato il 26 Febbraio 2020 OLTRE 6 MESI FA

Sergio Marchionne (foto Lapresse)

ROMA – Fraintendere le dichiarazioni di Sergio Marchionne è rimasto l’unico modo per capire quello che pensa davvero. E così quando smentisce con forza di aver mai detto: “Potremmo lasciare l’Italia”, non si può fare a meno di pensare che dietro la pietosa formula dubitativa con la quale ha espresso la lodevole intenzione ci sia una decisione già presa. Marchionne comunica ormai come la Sibilla Cumana al fine di provocare tutta una serie di interpretazioni, quasi sempre contrastanti tra di loro, per poi aderire a quella che gli conviene di più. Non a caso la disdetta dal contrario nazionale del lavoro, all’indomani della nomina di Mario Monti a Presidente del Consiglio, divide gli osservatori in due partititi numericamente equivalenti .

Da una parte chi considera l’annuncio un provvidenziale sostegno al nuovo governo, dall’altra chi lo considera un attacco destabilizzante condotto in un momento di oggettiva debolezza della nuova compagine. Ma c’è il linguaggio del mercato, con la disarmante evidenza della artimetica e quindi fuori dal gioco dei fraintendimenti, a fare chiarezza. La presenza della Fiat in Europa si avvia a diventare marginale con una quota di poco superiore al 4% che scende al 2% se si toglie il contributo delle vendite in Italia che contano per il 50% del totale. In queste condizioni c’è da valutare se davvero questo risultato è il frutto di una coscente volontà di spostare il baricentro del Lingotto dall’ Italia agli USA e dalla Fiat alla Chrysler oppure se il risultato di una crisi irreversibile mascherata da raffinata strategia.

Dice Marchionne: “Inutile investire in nuovi modelli in un mercato in crisi. Perché nessuno li compra”. Parole che in realtà non fanno che dare ufficialità al ritiro della Fiat dal mercato europeo. Un terreno troppo difficile. E l’Italia non è da meno. Anche la roccaforte del Lngotto da segno di cedimento. Ben più di quello che dicono i numeri, gonfiati dalle Km0 e dalle strategie commerciali. Kia e Hiundai con incrementi del 50 e 60% in Italia e con quote in crescita in Europa dicono chiaramente che neppure il mercato delle piccole utilitarie potrà offrire rifugio alla Fiat. Il rirardo del rinnovo della gamma modelli si è dilatato a tal punto che nessun recupero, quanto meno a costi sostenibili, è davvero perseguibile. Ed infatti l’obiettivo Fiat è quello di gestire al meglio la resa, contenendo per quanto possibile il calo dele vendite. Anche a costo di passi falsi. Come quello costituito dall’ennesimo restiling della Punto il cui risultato è quello di riportare il modello alle origini. Un processo involutivo che non ha eguali e che non può essere che frutto di una situazione di insuperabile emergenza. Nessun costruttore può sostenere le sfide di un mercato così sofisiticato e articolato come quello europeo senza una vera gamma prodotto. Non bastano singoli modelli di successo per “tenere in gabbia” il consumatore.

Occorre che all’interno dell’offerta si sviluppino quelle correnti, dal basso verso l’alto e viceversa, in grado di offrire opzioni di scelta soddisfacenti e cilci di rinnovamento così serrati da minimizzare le fughe del cliente verso altri concorrenti. La Alfa Romeo Giulietta è una ottima automobile e lo stesso vale per la nuova Lancia Ypsilon ma, così isolate, i tempi del successo e del declino tendono a coincidere. E’ una evidenza che comincia ad essere sotto gli occhi di tutti ora che il carisma di Marchionne, almeno al di qua dell’Atlantico, mostra la corda. A maggior ragione occorre intensificare le manovre diversive. Che sono sempre le stesse.

La lotta del bene verso il male, la Fiat contro la GGIL e la Fiom. E poco importa che la materia del contendere riguardi un tema che incide per meno del 6% su un prodotto che viene spesso svenduto a prezzi di saldo e che altri costruttori come Volswagen si avviino a guidare la classifica dei costruttori mondiali con regole sul lavoro che da noi assomigliano al paradiso. Ma nonostante tutto il tema dlla produttività rimane centrale. Davvero pradossale nel momento in cui tutti gli stabilimenti Fiat in Italia, nessuno escluso, sono afflitti da dose massiccia di cassa integrazione. In questo caso, infatti, la produttività è tutta e solo nelle mani del padrone perché funzione della efficacia comrciale dei modelli prodotti. Il destino della Fiat è segnato: una marca localizzata a tutela del mercato italiano, così come è avvenuto per la Seat in Spagna o una specialista in utilitarie. Ma la seconda ipotesi è sempre meno credibile nel momento in cui i costruttori coreani fanno da apripista a cinesi ed indiani. Ma niente paura, c’è una soluzione all’orizzonte.

C’è la Di Risio che, salvato lo stabilimento di Termini Imerese, si avvia (ma già lo è) a diventare il secondo costruttore italiano. Scocche cinesi, motori e cambi della Fiat. Con un programma davvero attraente: 60.000 auto nel 2014 o giù di li. Meglio allora, per il bene dell’Italia automoblistica, sperare nella Volkswagen che a sua volta fa il tifo per la definitiva emigrazione di Marchionne negli States. Non per nulla è già scesa in campo con la Up, avversaria della nuova Panda e che confida nella necessità del manager del Lingotto di reperire finanziamenti in grado di renderlo finalmente padrone del paradiso – Chrysler. Arriverà il momento di aprire la cassaforte Alfa Romeo, estrarne il marchio del B iscione ed incamerare i soldi che il gruppo tedesco è pronto a versare. Gli ottocento ingegneri della Italdesign, la factory di Giugiaro alle porte di Torino, recentemente acquisita da Volkswagen, non aspettano altro.