Fiat, Chrysler/ Obama incorona la Grande Torino, ma la finanza americana si prepara a dare battaglia. I dubbi del giornale di Wall Street

Pubblicato il 1 Maggio 2009 - 12:44 OLTRE 6 MESI FA

Non è piaciuto a tutti l’accordo, annunciato dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama in persona, che dovrà portare all’ingresso della italiana Fiat nel capitale della casa automobilistica americana Chrysler.

Non c’è dubbio che è motivo di orgoglio per tutti gli italiani che sia stata scelta come salvatrice di un ex colosso dell’auto mondiale la prima azienda del nostro paese, sulla quale, solo pochi anni fa, gli speculatori giocavano che fallisse. Complimenti a Sergio Marchionne che ha salvato la Fiat dal fallimento, ha visto l’occasione della Chrysler, se l’è giocata tutta, fino in fondo, con una abilità e una durezza che ha sconcertato persino gli americani. Sono quindi comprensibili gli entusiasmi delle persone, dei politici e dei giornali, che riassume per tutti il primo ministro Silvio Berlusconi.

Lascia un po’ perplessi il totale silenzio del sindacato, che è passato dai tempi in cui i suoi rappresentanti pontificavano praticamente su tutto, dai cottimi, legittimamente, a come si fa l’amore, un po’ meno. Si è solo sentito il plauso di Cesare Damiano, ex sindacalista, ex comunista, ex ministro del lavoro, torinese. Forse il sindacato ha avuto dalla Fiat in via riservata informazioni dettagliate sull’operazione Chrysler e garanzie sui rischi di ripercussioni negative sull’occupazione in Italia. Tutti ben sanno che, quando le cose vanno male, i primi e comunque non gli ultimi a pagare sono i lavoratori.

Per ora, i sindacalisti italiani sono andati in delegazione a Detroit, a tranquillizzare i colleghi americani su Marchionne. Sono andati a Detroit e hanno detto a Ron Gettelfinger, il finora potentissimo capo dell’Uaw (il sindacato americano dell’auto) che «Marchionne potrebbe essere l’uomo giusto».

Qualche preoccupazione sembra serpeggiare, se non altro a livello fabbrica. Dice il sindacalista  Bruno Vitali, di ritorno da Detroit: «Se ci saranno grandi tagli, ci saranno grandi proteste». Preoccupa un po’ l’aggettivo «grande», non per le proteste, ma per i tagli. E dato che la colonizzazione di Detroit non si prospetta una passeggiata, forse qualche dubbio sarebbe da porre. Che Marchionne sia bravo non c’è dubbio, ma i tedeschi, nell’auto e non solo, non sono gli ultimi: eppure la Daimler (Mercedes) sull’altare della Chrysler ha lasciato dieci miliardi di dollari (più altri seicento milioni cash in questi giorni) e è fuggita appena in tempo, ma le ferite sono tutt’altro che rimarginate e ormai i giornali sentenziano che il suo primato è finito a favore della Volkswagen, l’auto del popolo.

A cose, se non ancora fatte, annunciate l’articolo del Wall Street Journal sulla conclusione della vicenda va letto con attenzione in Italia. Il giornale è la voce dell’establishment finanziario, e già il titolo fa riflettere: «La Chrysler spinta nelle braccia della Fiat».

L’inizio è una dichiarazione di voto: «Il presidente Barack Obama ha promesso di infondere nuova vita nella Chrysler, spingendo la storica casa automobilistica in una riorganizzazione via bancarotta che darà potere ai sindacati e metterà l’italiana Fiat al comando, contemporaneamente mettendo da parte i suoi creditori».

Secondo il giornale, proprio questi creditori, furiosi, uniti ai 3.200 concessionari della Chrysler, altrettanto furiosi perché terrorizzati da una probabile epurazione, potrebbero montare una serie di cause giudiziarie e bloccare per parecchio tempo la sperata chirurgica bancarotta, che nelle intenzioni del governo Usa dovrebbe durare non più di due mesi. Inoltre, se le cose andassero troppo per le lunghe, ci potrebbero essere effetti distruttivi sul già fragile sistema dell’indotto auto americano e allontanare del tutto i già pochi clienti della Chrysler.

Chiaro è l’interesse del governo: «Vuole proteggere i posti di lavoro e salvare il terzo costruttore d’auto americano, anche a spese dei creditori privilegiati», mettendoli alla pari con gli altri creditori: e qui si può aprire una di quelle delicate battaglie giudiziarie che fanno ricchi gli avvocati e i cui esito è sempre assai incerto. (Sicuramente, vien da dire a questo punto, Marchionne si sarà chiesto: ma perché proprio noi?).

Lo scontro che si profila con i piccoli creditori è politico e legale insieme. I creditori che la parte governativa ha definiti “avvoltoi” sono fondi che non hanno ricevuto i finanziamenti statale impiegati per il salvataggio delle grandi banche. Facile per queste, dicono gli esclusi, rinunciare a parte dei loro crediti: con tutti i soldi che gli ha dato Obama, non potevano dirgli di no. Per loro qualche miliardo di dollari sono spiccioli. «Ma noi abbiamo una responsabilità fiduciaria verso tutti quegli insegnanti, pensionati, e quanti ci hanno affidato la cura del loro denaro».

Dal punto di vista finanziario la Fiat se l’è giocata bene. Non mette un soldo sul piatto, mentre tutti gli altri ce ne lasciano tanti: tra Daimler e il fondo Cerberus (che aveva rilevato il controllo di Chrysler) 2 miliardi di dollari; il Tesoro americano 4; le grandi banche 4,9; i lavoratori 6 (sono quasi due terzi del loro fondo pensionistico).

Bisogna però vedere come se la caverà Marchionne o chi lui nominerà con un governo americano che assume, scrive il Wall Street Journal, «un ruolo centrale in un’impresa privata» come «non si era visto per decine di anni»; con un accordo che «consente al governo e al sindacato di riorganizzare il top management dell’azienda»: del consiglio di amministrazione, al governo americano toccano tre consiglieri, a Fiat tre, al sindacato uno, al governo canadese uno. L’attuale capo di Chrysler, Bob Nardelli, e il suo vice, Tom LaSorda hanno già annunciato che se ne andranno. Nardelli diventerà consulente di Cerberus. 

La struttura azionaria ormai è nota: 55% al nuovo fondo pensione, esterno, di proprietà del sindacato; 20% a Fiat; 8% al Tesoro Usa 2% al Canada. Non si capisce dove rimanga parcheggiato quel rimanente 15% che Fiat potrà acquisire (non si capisce se sempre gratis) a condizione che porti alla Chrysler un motore a basso consumo da costruire negli Usa e produca un’auto capace di percorrere 40 miglia con un gallone di benzina.

Si profila una corsa contro il tempo. Se le cause non comporteranno ulteriori ritardi, c’è una potenziale crisi del sistema dei fornitori, cui il governo americano ha già elargito 4 miliardi di dollari, che però secondo gli esperti non bastano e un cui crash complessivo aprirebbe un’altra crisi per l’intera industria dell’auto negli Usa, inclusi i produttori giapponesi.

E poi c’è il mercato. Uno dei 3.200 concessionari Chrysler, intervistato dal giornale dice: ci vorranno due anni prima che arrivi la prima auto della nuova alleanza. Nel frattempo abbiamo sempre gli stessi modelli, che non vendono. Un anno fa erano 40 macchine al mese, ora sono dieci. Se non riparte il mercato, qui si chiude.