Tangenti in Nigeria e inchiesta su Eni e Halliburton. I problemi dell’Africa, corruzione e sfruttamento

di Marco Benedetto
Pubblicato il 21 Luglio 2009 - 13:18| Aggiornato il 13 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

La vicenda che vede implicati due dirigenti dell’Eni, accusati di avere pagato tangenti a esponenti governativi della Nigeria per ottenere appalti non è un fatto italiano, anche se i giornali italiani se ne sono occupati solo negli ultimi giorni perché si è mossa la procura della Repubblica di Milano e quindi da lì la notizia è poi trapelata.

L’inchiesta però non nasce in Italia, ma in America, dove già un ex dirigente di alto livello della Halliburton è stato condannato a sette anni di carcere e ora reclamano anche l’estradizione dell’Inghilterra di un avvocato che avrebbe materialmente consegnato le mazzette.

La storia diventa ancor più fosca se si collega il nome della Halliburton a quello di colui che ne fu capo per anni, prima di diventare vice presidente degli Stati Uniti d’America, Dick Cheney, cioè quella stessa persona che è tra i principali responsabili della catastrofica guerra Iraq, sia per la strategia politica sia per gli atti compiuti, che non hanno escluso la forzatura, diciamo così, delle informazioni fornite in dall’intelligence.

A considerare tutti gli elementi di cui si è a conoscenza, viene a volte il folle sospetto che la guerra sia stata fatta non tanto per portare la libertà o esportare la democrazia in Iraq, quanto per fare assegnare alla Halliburton contratti di ogni tipo per miliardi e miliardi di dollari.

L’Halliburton è un’azienda corrotta (di poco tempo fa è la notizia che due suoi dirigenti sono stati licenziati per avere preso mazzette in Iraq) e che corrompe, come nel caso della Nigeria.

Ma se è per questo, quella di dare mazzette a capi e capetti di tutti i livelli in giro per il mondo non è una prerogativa della Halliburton: basta ricordare lo scandalo legato a mazzette distribuite per ottenere lavori che ha scosso, da un paio d’anni a questa parte, il colosso multinazionale tedesco Siemens. L’Italia ha poi nella sua storia l’ormai dai più dimenticato scandalo degli aerei militari Lockheed forniti in cambio di mazzette anche a un numero di altri paesi: Giappone, Germania, Olanda.

La giustificazione che le aziende coinvolte danno è semplice e chiara: se non si fa così, in quei paesi non si lavora. La poca comprensione che i paesi occidentali dimostrano nei confronti di chi distribuisce mazzette viene spiegata, oltre che con norme che i paesi occidentali tendono sempre più a darsi per colpire crimini commessi fuori dei confini nazionali, anche con il fatto che la corruzione altera il corretto funzionamento della concorrenza e contribuisce a mantenere nella miseria i paesi che ne sono piagati.

Tra i paesi più corrotti al mondo ci sono quelli africani, che sono quegli stessi paesi che chiedono azzeramento dei debiti e aiuti per decine di miliardi di euro. Nelle loro richieste trovano sostenitori molto forti nelle persone di cantanti famosi, a cominciare da Bono degli U2 il cui appello è anche aiutato dalla tendenza a commuoversi che caratterizza in genere chi ha i soldi quando deve affrontare casi di fame e miseria. La commozione è seguita dall’obolo, che non aiuta il povero a uscire dalla sua condizione attraverso la dignità del lavoro, ma mette a posto la coscienza di chi lo eroga.

Una delle caratteristiche del mondo di oggi è che le cause ottengono una eco proporzionale alla fama di chi le sostiene. La gente comune, il popolo, gli elettori, hanno una istintiva e intuitiva capacità collettiva di discernere e distinguere la sostanza dall’immagine, per cui alla fine noi popolo sappiamo dare alle parole e ai gesti di questi ambasciatori onorari il giusto peso: lo ha dimostrato il pubblico milanese al recente concerto degli U2, reagendo abbastanza freddamente all’appello di Bono contro il Governo italiano perché in arretrato nel pagamento di quanto dovuto agli africani.

Però nessun Governo può non tenere conto della capacità di pressione di personaggi come Bono o Bob Geldof, i quali, travolti dall’entusiasmo e dalla passione, certamente moralissima, per la causa sposata, possono comportarsi fuori dagli schemi rigidi e grigi che ingabbiano i politici e i diplomatici di carriera.

Ma la vicenda giudiziaria internazionale che coinvolge Halliburton e Eni dimostra che il bene dell’Africa lo si persegue aiutando quei paesi a darsi regole di comportamento diverse. Il primo che ha parlato chiaro in questo senso è stato Barack Obama, cui non nuoce certo il colore della pelle, perché esso gli dà, quando si rivolge ai paesi dell’Africa, non solo quella nera, una credibilità che nessun bianco potrà mai avere.

Ha detto Obama che non vale appellarsi agli strascichi negativi del colonialismo: «Quando mio padre lasciò il Kenya per venire in America, il reddito pro capite del Kenya era superiore a quello della Corea del Sud. Oggi il Kenya è un paese miserabile e la Corea è una potenza economica mondiale», mentre il livello di corruzione di certi paesi africani è a livelli intollerabili, che distruggono qualsiasi prospettiva di sviluppo.

La conclusione di Obama la possiamo sottoscrivere tutti: noi vi aiutiamo, ma voi aiutatevi con riforme serie, combattete la corruzione: è un vostro obbligo.

Quanto poi questo sia retorica, anche se ben argomentata, lo si vedrà in futuro. Non si può pensare che la corruzione dei politici sia la causa di tutti i mali di un paese. Non è che la Corea, presa da Obama a paradigma di successo, non sia un paese corrotto: accusato di avere preso tangenti, si è persino ammazzato l’ex presidente Roh Moo-hyun ( e nonostante lo scandalo al funerale ha partecipato una folla immensa e commossa).

Forse il problema non è solo nella corruzione, ma nelle finalità e nelle conseguenze della corruzione. Se la tangente è finalizzata a fatti precisi, individuali o comunque limitati, come nel caso della scelta di un fornitore su un altro, il male c’è ma è contenuto e non altera il più grande processo di crescita dell’economia. Senza andare lontano, basta pensare all’Italia, dove si parla di tangenti fin dai film di Totò e dove la corruzione è, per riconoscimento generale, un fatto quasi endemico; eppure l’Italia è diventata quello che è, nonostante tutto. E se poi uno segue i giornali americani, o inglesi, o tedeschi e ha buona memoria, la loro storia è piena di casi di corruzione, a tutti i livelli: quando Reagan lasciò la presidenza degli Stati Uniti, ne misero dentro ben 200 dei suoi.

Se invece la tangente ha come effetto condizioni strutturali di privilegio, ad esempio legate ai prezzi di trasferimento delle materie prime, che sono una delle principali fonti di reddito dell’Africa, o legate  alle imposte pagate dalle multinazionali che sfruttano la terra africana, il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Il problema quindi non è né quello di regalare più o meno soldi ai poveri africani, anche perché parte verrebbe poi impiegata nell’acquisto di armi destinate a guerre che ancor più aggravano le condizioni del continente nero e parte finirebbe, attraverso le tasche dei politici africani, nei conti svizzeri e negli investimenti immobiliari in altri paesi del mondo.

Né ci si può illudere che con qualche norma più o meno severa la corruzione svanisca è come dire che la pena di morte fa cessare gli omicidi. Se la comunità internazionale ha intenzioni serie, può cercare di applicare in modo concreto il teorema di Obama: vi aiutiamo a patto che. Purtroppo a pagare quel “patto che…” sarebbero però quelle stesse multinazionali che sostengono con i loro contributi i partiti al governo nei paesi come la Gran Bretagna che sono tra i più calorosi propugnatori degli aiuti all’Africa. Forse il problema è insolubile. A me dispiace solo che paghiamo le tasse noi per favorire i business degli altri.