Covid-19 non oscuri il 5 maggio. Da Napoleone a Garibaldi, noi italiani siamo nati allora

di Marco Benedetto
Pubblicato il 5 Maggio 2020 - 12:39| Aggiornato il 6 Maggio 2020 OLTRE 6 MESI FA
Covid-19 non oscuri il 5 maggio. Da Napoleone a Garibaldi, noi italiani siamo nati allora

Covid-19 non oscuri il 5 maggio. Da Napoleone a Garibaldi, noi italiani siamo nati allora (Ansa)

Covid-19 non deve farci trascurare la data del 5 maggio. A parte quelli che compiono gli anni in questo giorno, il 5 maggio è scolpita nella storia del mondo per la morte di Napoleone nel 1821.

E nella storia italiana per la partenza dei Mille di Garibaldi, nel 1860. Da quel giorno, in 10 anni, si compì l’unità d’Italia. 

Tra un anno faranno due secoli da quando Napoleone Bonaparte morì, esule a Sant’Elena, isola sperduta nell’oceano Atlantico. Attorno a Napoleone si è sviluppata una melassa di retorica un po’ senza senso.

Per me Napoleone è un simbolo della relatività della politica.

Come Napoleone non era francese, così la Grande Caterina di Russia era tedesca e l’attuale regina d’Inghilterra, Elisabetta, discende da una famiglia tedesca, incrociata con i normanni (scandinavi francesizzati).

I francesi adorano Napoleone, anche se francese lo era solo per la recente acquisizione della Corsica (1768, lui nacque nel 1769).

Nemmeno parlava bene il francese, dicono. Piuttosto una specie di patois genovese, che è quello che ancora oggi parlano i corsi.

Non era italiano, non era genovese, era un corso che sottomise i francesi e per 20 anni buona parte d’Europa.

Ma ha fatto grande e ricca la Francia, rapinando l’Europa e in particolare l’Italia.

In Italia, il ventennio napoleonico suscitò entusiasmi e delusioni. Chi ancora oggi crede in quel mito soffre di auto illusione.

Ma certo diffuse, al Nord come al Sud, idee nuove, di uguaglianza, di libertà, di democrazia che restarono e prosperarono anche dopo che svanì l’inganno francese che le aveva strumentalizzate.

Per l’Italia, gli effetti della occupazione francese, nelle varie forme di repubblica e regni, furono devastanti. La Francia, con la restaurazione monarchica, diventò la prima potenza economica europea. Alla base, c’erano le ricchezze accumulate in 20 anni di guerre di conquista.

La restaurazione in Italia aprì un periodo di recessione. Non mancò una epidemia di colera. Ora c’è il coronavirus, ma anche allora ci furono zone rosse, aperture e riaperture.

L’Italia era divisa in tanti stati e staterelli. Lombardia e Veneto, colonie austriache, erano le regioni più ricche. Il Piemonte era così arretrato che quando Cavour iniziò la sua ricerca di modelli e idee di progresso economico e finanziario dovette scendere a Genova.

Genova, come Venezia, aveva cessato da poco di esistere come Repubblica indipendente ma conservava ricchezze e soprattutto know-how da grande potenza transoceanica.

Non a caso Genova fu il cardine su cui ruotò il Risorgimento.  Con l’attivismo, un po’ folle e irresponsabile, di Giuseppe Mazzini, con i fermenti rivoluzionari e intellettuali, con la partenza dei Mille.

Al centro dell’Italia c’era il Papa, lo stato pontificio causa di gran parte dei nostri guai. Tutto ebbe inizio nel nono secolo, quando il Papa determinò l’intervento di Carlo Magno a bloccare il disegno longobardo di unire l’Italia in un unico regno.

Nei secoli seguenti, gli Stati che poi avrebbero dominato il mondo fino a 70 anni fa presero le dimensioni di regni unitari: Francia e Inghilterra. 

La Germania diventò una a tempo con l’Italia, nel 1870. Ma dopo mezzo secolo di mercato comune e di fatto unita da sempre da un sistema di comunicazioni che superava le barriere dei suoi tanti stati. 

Inoltre, la Germania è stata, fin dalla preistoria, il più grande mercato europeo, ricca di materie prime (rame) e preziose (ambra), esportatrice di armi e importatrice di tutti i beni che nei millenni venivano portati in occidente dalle carovane e dalle navi greche e fenicie.

Altro che selvaggi nelle foreste, come il mito hitleriano vorrebbe. Erano già una potenza economica quando a Atene stavano fra i sassi con le pecore e a Roma sugli alberi.

Ci vollero mille anni prima che un’altra dinastia, i Savoia, realizzasse il sogno del re longobardo Desiderio di unificare l’Italia. Momento culminante la spedizione dei Mille. Due navi, Piemonte e Lombardo portarono un migliaio di patrioti dal mare antistante Quarto (oggi Quarto dei Mille) fino in Sicilia.

Quarto (sta per quarto miglio, credo) è un rione di Genova. sulla costa orientale. Era zona di pescatori e grandi ville signorili nel 1860. In una di queste, Villa Spinola, soggiornò Garibaldi nei giorni di vigilia. 

Oggi è una zona residenziale di media borghesia, gli stabilimenti balneari sono un monumento al cemento. Quando ero ragazzo tutto era in legno. D’estate si poteva pranzare sotto il pergolato dell’Osteria del Bai, con gioco da bocce e vista sul mare. Mangiavi male ma era emozionante.

Sotto quello stesso pergolato, la sera del 5 maggio 1860, si era seduto Garibaldi prima di salire sul tender che lo avrebbe portato a bordo del Piemonte. Oggi c’è un eccellente ristorante con aria condizionata.

Dal Bai al mitico scoglio di Quarto si va a piedi in venti minuti. Bevuto il suo bicchiere di vino, Garibaldi andò a Quarto, scese sugli scogli che ancor oggi bordano la riva, salì sulla lancia. Il Piemonte non si vedeva. Dopo un po’ si spazientì e si fece portare al porto di Genova. Una bella vogata: mezz’ora, un’ora.

C’è qualcosa che non torna, nella spedizione dei Mille. Come fece quella specie di armata Brancaleone a sconfiggere un esercito armato e forte di decine di migliaia di uomini come quello borbonico?

Leggendo le testimonianze di quei giorni si trovano racconti commoventi e anche disarmanti. I mille erano quasi tutti del Nord, moltissimi lombardi, avvocati, medici, tanti studenti.

Arrivarono alla stazione ferroviaria di Brignole, all’estremo Est della allora città. Grande entusiasmo e incertezze durante il viaggio. Si avviarono a piedi, salendo verso la collina di Albaro, e oltre, fino a Quarto. Non c’erano taxi, troppo care le carrozze. Non avevano armi, molti, forsi non sapevano nemmeno sparare.

Certo, Garibaldi poteva contare su Francesco Crispi, che conosceva le vie dell’invasione della Sicilia, da Ovest a Est. Ma non sarebbe bastato, se i generali borbonici non avessero preso la strada bagliata mentre arrivavano le camicie rosse. 

Poi arrivò Vittorio Emanuele II a mettere il cappello sull’impresa. Non c’è italiano che non lo abbia studiato a scuola. L’incontro di Teano, l’ingresso in carrozza a Napoli già apertasi a Geribaldi.

E se Garibaldi non fosse partito?

C’è una battuta che origina nel sostrato del razzismo genovese. “O se Garibadi o fosse scoggiou in scio-o lepego”, se Garibaldi fosse scivolato sul viscidume dello scoglio di Quarto.

Genova è una città razzista, al di là dell’ipocrisia contemporanea, come tutta l’umanità è ostile nei confronti dei diversi, più vicini e più odiati. Ma è anche una città inclusiva, come non può non essere una città di mare, miscuglio di etnie antiche come i liguri, e poi i fenici, gli ebrei, la nobiltà longobarda.

Poi vennero gli arabi, con una significativa influenza nel dialetto e poi tutti i tipi di gente da tutto il mondo. E alla fine i piemontesi dal basso Piemonte (etnia ligure anche loro) e i meridionali. Qui, nelle valli sulla costa ovest, e sul mare (Sampierdarena e Cornigliano e Voltri) nacque la prima grande industria italiana. Con relativo afflusso di manodopera.

Il pregiudizio, ieri come oggi, è diffuso nel Nord Italia. Non è etnico, oggi, bensì deriva dall’identità assunta dall’immigrato. Una bella percentuale di elettori leghisti e di quadri del partito è di origine meridionale.

Nel 1860, Massimo D’Azeglio, ministro e primo ministro piemontese, bravo pittore e scrittore, genero di Manzoni, scriveva:

“La fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”.

A questo punto chiediamoci: se davvero Garibaldi si fosse fatto male, cosa sarebbe successo? Se avesse prevalso il modello federale di Gioberti? Certo il Papa presidente d’Italia era contro natura. Ma quando finalmente imboccarono il federalismo era ormai troppo tardi, era passato un secolo di troppo.

Eppure quella federale era la scelta giusta. L’Italia, a differenza della Germania, non ha tradizioni millenarie di stato unitario e non ha miti fondanti e nemmeno origini etniche. Di quanti popoli, di quante provenienze, è fatta la nostra “nazione”.

L’unico mito fondante è l’anatema di Dante Alighieri, 800 anni fa:

Ahi serva Italia, di dolore ostello/ nave senza nocchiero in gran tempesta/ non donna di province ma bordello?

L’unità d’Italia era un evento inevitabile. Lì portavano gli interessi internazionali. E anche gli interessi italiani. Uno Stato di oltre 20 milioni di abitanti altra cosa era in termini di leva militare, proventi fiscali, mercato soprattutto, rispetto agli asfittici staterelli che lo precedettero.

Il Regno delle due Sicilie non era quel paradiso perduto che le nostalgie meridionali  rimpiangono. Non sono pochi chilometri di ferrovia a fare di Napoli una Londra mediterranea.

Da quel 5 maggio del 1860 si mise in moto un processo di evoluzione politica e crescita economica che, fra momenti cupi e rischi mortali, ha trasformato l’espressione geografica di Metternich in una delle prime potenze industriali del mondo. E in una repubblica senza re e nobili, dove il lavoro è il titolo principe di nobiltà.

Ci dominano consumismo e dio denaro? Prima di lamentarvi, guardate i vecchi film di Sordi e Totò, la miseria che traspare da quelle inquadrature. E poi vi inchinerete ogni volta che passerete davanti a una statua di Garibaldi.

Certo l’unità fu portata a compimento dai nordici con la stessa spietatezza con cui gli stati americani del Nord agirono sullo sconfitto Sud.

Miti e ideologie fecero grandi danni. Distrussero i vecchi equilibri con animo predatorio e tanta ignoranza e prepotenza. Garibaldi stesso, schifato, si ritirò a Caprera.

Ma pensate cosa è il Meridione oggi rispetto a quello che era. Non è colpa di Torino o Milano se fra la Sicilia e la Germania, il grande mercato delle componenti e dei prodotti finiti, ci sono mille e 500 chilometri in più rispetto a Brescia.

Ma se pensate cosa era il Sud Italia allora e come è oggi, forse il confronto più naturale è quello fra le due Coree e il distacco che si è aperto in poco più di mezzo secolo.

Anche nella gestione dell’unità nazionale i tedeschi sono stati più bravi. Il Kaiser non annullò i regni germanici assorbendoli nella Prussia. Centralizzò alcune funzioni chiave, rispettando le identità regionali perfino nei reggimenti del nuovo esercito imperiale.

Da noi fecero il contrario. Mio padre, nato a Alessandria e residente a Genova, venne inquadrato in un reggimento con base in Calabria. Per i morti della prima guerra mondiale, l’appartenza regionale forse valeva poco. Ma l’impronta accentratrice di quei primi anni la paghiamo ancora oggi.

La meridionalizzazione dell’apparato statale, della famelica burocrazia, ha incriccato l’Italia, fra leggi, regolamenti, decreti e commi. Ognuno ci ha messo del suo, nessuno è senza colpa. Per questo sono pessimista. Prima ancora di una confluenza di interessi, è una forma mentis diffusa.

Ma di tutto questo Garibaldi non ha colpa.