Mascherine a prezzo calmierato. Arcuri ha vinto! Ha piegato i farmacisti? Lo Stato paga la differenza

di Sergio Carli
Pubblicato il 14 Maggio 2020 - 11:56 OLTRE 6 MESI FA
Arcuri, Ansa

Mascherine a prezzo calmierato. Arcuri ha vinto! Ha piegato i farmacisti? Lo Stato paga la differenza (foto Ansa)

Mascherine anti coronavirus a prezzo calmierato finalmente ci saranno. La differenza ce la metterà lo Stato. Ma non basta.

Non ci possono tenere segregati per sempre. E non possono toglierci con l’altra mano una buona parte di quello che ci danno con l’altra.

È stato calcolato che il Coronavirus graverà sulle famiglie per oltre 500 euro all’anno. Viene naturale chiedere: visto che lo Stato pagherà la differenza fra prezzo d’acquisto delle mascherine da parte dei distributori e prezzo di vendita al pubblico, perché non passare gratuitamente un tot di mascherine ai tutti i cittadini e anche agli stranieri.

Chi ne vuole più di quel tot, le paga al prezzo che vuole il mercato. Il sistema sanitario nazionale passa montagne di medicine più o meno essenziali. Perché non includere nell’elenco anche mascherine e tamponi e poi, quando disponibili, le terapie anti Covid-19?

La pantomima delle mascherine ha fatto passare in secondo piano anche la crisi dei tamponi.

Eppure mascherine e tamponi sono gli strumenti architrave della guerra al coronavirus.

Non la guerra all’italiana, con le scarpe di cartone nelle nevi russe. Senza auto e senza benzina nel deserto libico.

Quella dei tamponi e delle mascherine sarà l’emblema del fallimento di una intera generazione di amministratori pubblici. E Domenico Arcuri rischia di assurgere a simbolo di quel fallimento, lui e i suoi colleghi burocrati e manager pubblici ai burocrati culturalmente assimilati.

Ora pare che finlmente le mascherine a prezzo calmierato saranno disponibili, ma con una clausola implicita. Il prezzo per i cittadini sarà, o dovrebbe essere, 61 centesimi (50+iva). Ma lo Stato intgrerà la differenza fra il prezzo imposto e quello effettivamente pagato.

Nelle parole di Domenico Arcuri a Federico Fubini sul Corriere della Sera:

“Se i distributori comprano a un prezzo maggiore di 0,38 gli viene ristorata la differenza”.

L’avesse fatto subito, invece di fare la faccia feroce per poi calare le braghe.

Non prima di averci messo di mezzo anche la sua calabresittà:

“Sono di Reggio Calabria e a Reggio non cambiamo idea facilmente!”

E invece gliela hanno fatta cambiare, e come. Facendo mancare le marcherine e umiliandolo pubblicamente.

La polemica è andata avanti un paio di settimane, ridicolizzzando in una certa misura anche il primo ministro Giuseppe Conte, che Arcuri aveva scelto o subito.

Federfarma aveva lanciato l’allarme: “Le mascherine chirurgiche sono irreperibili”. La fase 2 senza le mascherine, un po’ come una festa di compleanno senza regali. Guanti e alcol lo stesso destino, introvabili.

Aveva detto Gianfranco Di Natale, uno dei due co-direttori della federazione che raggruppa le imprese del comparto:

“Mi viene da dire che Arcuri è consigliato male…”.   

Se non era un frontale con Arcuri, non era neanche una carezza.

Un giornalista di Repubblica ha partecipato all’incontro convocato da Confindustria Moda. E ha riferito, le cifre diffuse in quella sede,

“che fotografano un settore messo in ginocchio dalla pandemia: il 95 per cento delle aziende prevede il ricorso agli ammortizzatori sociali; il 42 per cento ha visto un calo del fatturato compreso tra il 20 e il 50 per cento; il 7 per cento ha perso oltre la metà degli introiti. Il dato più rilevate al momento è la perdita accertata di 3,5 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo 2019”.
 

In questo disastro, gli incentivi previsti da Arcuri per chi voleva riconvertire e fabbricare le mascherine “di comunità”, che a differenza delle chirurgiche non sono dispositivi medici, ma “garantiscono, se ben fatte, un livello di protezione sufficiente” sono svaniti.

Dopo due mesi, il meccanismo immaginato si è inceppato perché lo Stato, nel frattempo, ha virato, puntando tutto sulle chirurgiche calmierate: quelle importate dalla Cina fino al prossimo luglio, e da luglio in avanti quelle che verranno prodotte “in casa” con 51 macchinari di recente acquistati. Di fatto, ha messo fuori gioco le aziende del comparto a cui inizialmente si era appellato Arcuri.

Intervistato da Fubini, Arcuri ha detto:

“Non c’era un’industria delle mascherine, ora le fanno 108 aziende. I test rapidi non servono a nulla”.

Chi mente?

Di Natale ha replicato così: “Mi viene da dire che il commissario straordinario è consigliato male. Resto abbastanza sorpreso dal fatto che noi siamo stati stimolati a creare un prodotto autarchico, fatto cioè con semilavorati italiani e produzione italiana, e poi alla fine ci troviamo a competere ora con prodotti cinesi troppo spesso non certificati, domani con le mascherine di Stato.

“Sarebbe stato più sensato puntare sulle nostre, che essendo lavabili e non monouso come le chirurgiche, hanno un impatto ambientale inferiore”.

Per chi non ricordasse i precedenti della tipica vicenda italiana, ricordiamo alcuni passaggi.

Mascherine, Arcuri contro il resto del mondo

Continua il duello Arcuri-Regioni. Il prezzo calmierato resta un rebus, scrive Lorenzo Salvia sul Corriere della Sera.

Sono tanti i punti di vista possibili per capire come la fase 2 continui a zoppicare. Uno dei migliori, però, resta quello delle mascherine. Spesso introvabili. Oppure trovabili ma a un prezzo più alto di quello fissato contro le  speculazioni. Prezzo che sarebbe di 50 centesimi ma per ora resta a 61. 

E questo perché si applica ancora l’Iva che il governo vuole  abolire,  solo che  il decreto ancora non c’è. 

Il commissario straordinario, Domenico Arcuri, respinge gli attacchi: «Nelle ultime settimane abbiamo distribuito 36,2 milioni di mascherine, dall’inizio dell’emergenza sono 208,8 milioni. 

Le Regioni nei loro magazzini ne hanno 55 milioni». 

“Al di là delle baruffe quotidiane, i problemi sono due. Il primo è la distribuzione. 

Per questo il commissario  dovrebbe  firmare a breve un accordo con i tabaccai, che hanno una capillare rete di vendita, visto che coprono  7.400 Comuni su 7.900.

Il secondo problema è la produzione. L’Italia sforna una quantità limitata di melt blown, il tessuto utilizzato per le mascherine chirurgiche. È stata riconvertita qualche fabbrica che prima produceva filtri per auto, ma non basta.  
Da qui l’idea alla quale stanno lavorando il Politecnico di Torino e l’Uni, l’ente italiano di normazione, insieme a Inail e Confindustria dispositivi. Si tratta delle cosiddette mascherine di comunità, leggermente meno protettive di quelle chirurgiche ma  più facili da produrre. L’idea è utilizzare materiali diversi, i cosiddetti wet laid, un misto di cellulosa e fibre polimeriche». La produzione non sarebbe un problema. Aiuterà a chiudere la guerra delle mascherine?”.

Forse, fino ai prossimi ricorsi in tribunale o in procura.