13/10/1972, sopravvissuti: disastro aereo sul gelo delle Ande, in 16 resistettero 72 giorni, grazie ai cadaveri

Orrore e istinto di sopravvivenza, 50 anni fa la prova più dura, il famoso disastro aero su una sperduta vetta ghiacciata delle Ande

di Redazione Blitz
Pubblicato il 13 Ottobre 2022 - 19:50 OLTRE 6 MESI FA
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I superstiti del disastro aereo del 13 ottobre 1972 ricordano la tragedia (Ansa)

A 50 anni dal miracolo delle Ande. Una storia di morte, ma anche uno splendido trionfo della vita. Un’irripetibile vicenda di disperazione collettiva, ma soprattutto di tenace speranza.

A 50 anni dal miracolo delle Ande

Una tragedia, certamente, e nello stesso tempo un miracolo che dopo decenni, continua a scavare nel profondo dell’umanità, interrogando e riflettendo su cosa significhi davvero la parola ‘sopravvivere’.

E’ passata la metà di un secolo da quel drammatico venerdì 13 ottobre 1972, quando un aereo Fairchild F-227 dell’Aviazione militare uruguaiano, realizzando un volo charterizzato, si schiantò per un errore di valutazione del pur espertissimo pilota su un picco delle Ande argentine, a 3.800 metri di altitudine.

Nel disastro aereo in 16 hanno resistito 72 giorni al gelo

A bordo c’erano 45 persone, cinque membri dell’equipaggio, e una squadra giovanile di rugby (‘Old Christians’) con familiari ed amici, diretta a Santiago del Cile per un incontro amichevole.

Diciotto persone morirono al momento del violento impatto all’altezza del Glaciar de las Lagrimas, nel dipartimento argentino andino di Malargue (provincia di Mendoza), altre 11 persero la vita nei giorni successivi. Sedici sopravvissuti furono tratti in salvo solo il 22 dicembre, dopo 72 lunghissimi giorni di lotta, nel mezzo di un inferno di ghiaccio.

Una battaglia estrema, in cui persone in attesa di soccorsi che non arrivavano, si spinsero fino a commettere l’indicibile: nutrirsi della carne congelata dei compagni morti. Dopo aver esaurito le scorte alimentari, e provato ad ingoiare di tutto, dalle suole delle scarpe, alle sigarette e al dentifricio, ha ricordato Roy Harley, uno dei membri della squadra di rugby che oggi ha 70 anni, “ci riunimmo per decidere su quella che era per noi l’ultima spiaggia”.

La maggioranza votò “sì”, ha ammesso, spiegando che “stavamo morendo. Quando si ha la scelta di morire o di usare l’unica cosa che resta… abbiamo fatto quello che abbiamo fatto per vivere”.

“La prima notte fu la più terribile”

“La prima notte, ha assicurato, “fu la più terribile”, per “la paura, il freddo, i gemiti di dolore dei feriti”. “Ai miei piedi, ad esempio, c’era un ragazzo a cui mancava una parte della faccia e che soffocava nel suo sangue”.

Il mattino dopo, quattro feriti si aggiunsero alle persone già decedute. “Avevamo freddo, molto, freddo. Era durissimo”, ha aggiunto un altro sopravvissuto, Carlos Paez, 69 anni, anche lui uruguaiano e giocatore di rugby.

Dopo dieci giorni dall’incidente, dice ancora, “ricevemmo attraverso una rudimentale radio attivata con le batterie dell’aereo, una tremenda e per noi dolorosa notizia: le squadre di soccorso interrompevano le ricerche”.

Pensai: “Il mondo ha deciso di andare avanti senza di noi che siamo ancora vivi!”. Ma la tragedia ebbe fortunatamente per i sopravvissuti un lieto fine. Nando Parrado e Roberto Canessa, partiti alla ricerca di aiuto, scalarono una vetta di 4.650 metri, camminarono per dieci giorni.

Entrarono in Cile, fino a che furono avvistati da due mandriani. Il 23 dicembre 1972 i 16 sopravvissuti furono salvati.