Come morire? Libera scelta a Liverpool, senza sondini. L’articolo di Bill Keller

Pubblicato il 13 Ottobre 2012 - 07:10 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Come è giusto morire? Un contributo alla discussione, con superficialità spesso associata all’eutanasia, lo offre l’editorialista del New York Times Bill Keller. Sulle colonne del quotidiano che ha diretto per molti anni, ha raccontato, senza enfasi e con una buona dose di sano pragmatismo, gli ultimi giorni del suocero: assistito in ospedale a Liverpool, il suo caso è stato trattato con il protocollo in uso per l’assistenza ai malati terminali di cancro. Il Liverpool Care Pathway for the Dying Patients, accettato liberamente dal padre di sua moglie, Anthony Gilbey, gli ha consentito cure soft senza accanimenti terapeutici. Il grosso tumore che lo affliggeva era incurabile.

“Certo, i medici non potevano far nulla contro l’inoperabile tumore, ma avrebbero potuto mantenere in funzione con la dialisi i suoi reni ormai compromessi, somministrargli insulina per controllare il diabete. Il pacemaker avrebbe continuato a far battere il cuore, perciò una terapia aggressiva avrebbe potuto prolungare per qualche tempo la sua vita”.

Non i medici di Liverpool che, come assicura l’ex direttore del centro, Sir Thomas Hughes-Hallet, non si sognano di infrangere il giuramento di Ippocrate che impone le cure sempre a tutti i pazienti fino al momento del decesso. Propongono, ormai dagli anni ’90, un altro percorso ai pazienti terminali.

“Non si tratta di affrettarne il decesso – dice sir Thomas – ma di riconoscere che una persona è giunta alla fine della propria vita, e di offrirgli delle scelte. Desidera una maschera di ossigeno sul volto? O vorrà baciare sua moglie?”

La seconda scelta permette di congedarsi con dignità, magari avere la forza sufficiente a scambiare un addio, a chiedere perdono, a dare un consiglio prezioso. Invece di sopravvivere in una nube di morfina nella quale vegetare tra catalessi e incoscienza. Basta con l’insulina per controllare il diabete, stop alla dialisi per surrogare i reni guasti. Basta.

Quei medici pensavano, d’accordo con il paziente che “non avesse senso prolungare un’esistenza vicinissima alla fine, tormentata da dolore, immobilità, incontinenza, depressione, progressiva demenza”.

Keller cerca di capire perché tutto ciò sia possibile in Gran Bretagna e non negli Stati Uniti, dove “nulla infervora il dibattito sulle cure sanitarie più che la questione di quando e come negarle”. Qualcosa che in Italia conosciamo bene. A partire dal no categorico che impegna la Chiesa Cattolica, da noi come negli Usa. Dove però, viene a sommarsi alle denunce di politici conservatori come Sarah Palin o Michele Bachmann. Abbreviare l’esistenza, sostengono, è un meschino calcolo politico, perché un quarto dei costi sanitari si concentra sull’ultimo anno di vita. E’ facile, in questo modo, accusare il cinismo di chi considera uno spreco sperperare tanto denaro per qualche settimana o mese di vita in più.

Keller sospetta che incentrare il dibattito sul tema dei costi/benefici che pure ha grande presa nella società americana, è controproducente. Lo sa bene sir Thomas, il quale ammonisce di non fare calcoli affinché il protocollo non venga dipinto come “un modo di uccidere i pazienti in fretta e liberare i posti letto”. Messo iun questa prospettiva il programma sarebbe già morto e, infatti, i medici di Liverpool non hanno idea se il,protocollo riduca effettivamente i costi di gestione. Keller si limita quindi ad augurarsi che tutti possano morire come suo suocero, spiegando che in effetti si tratta solo di una morte più umana.

“Nei sei giorni precedenti alla morte, Anthony Gilbey, avvolto in una coltre di morfina, ha ripetutamente perso  e riacquistato coscienza. Liberato da tubi e da medici solleciti, ha potuto ricordare il passato, scusarsi, scambiare battute e promesse di amore con la famiglia, ricevere i sacramenti cattolici e ingoiare un’ostia che è stato forse il suo ultimo pasto. Poi è entrato in coma. E’ morto umanamente: amato, dignitoso, pronto”.