New York, nuova Babele: 800 lingue, almeno per adesso

Pubblicato il 29 Aprile 2010 - 17:29 OLTRE 6 MESI FA

Una città, quasi mille lingue. La Bebele del terzo millennio si chiama New York. Raccontata dal suo quotidiano d’elezione, il New York Times,  la grande mela si scopre negli 800 idiomi parlati, molti in via d’estiznione.

È il caso di Mamuju, Vlashki, Garifuma, Istro-Romeno, parlati ormai da pochissime persone.  Come Husni Husain, di Rego Park,  Queens: è l’unico a New York che sa ancora esprimersi in in Mamuju, linguaggio austronesiano imparato bambino nella provincia indonesiana di West Sulavesi. Husain ha 67 anni. Né sua moglie, che è nata a Java, né i suoi figli nati a Giakarta parlano Mamuju: “Non leggo libri in Mamuju, lo parlo solo quando torno in patria”.

Stesso copione in una chiesa cattolica di Morrisania, una enclave del Bronx: qui una volta al mese la messa viene celebrata in Garifuna, lingua originaria degli schiavi africani naufragati vicino a St. Vincent nei Caraibi.

New York, in quanto crogiolo del melting pot, è anche la Babele linguisticamente più variegata del mondo: lingue nate in altre parti del mondo, alcune delle quali non hanno un alfabeto scritto, qui hanno messo radici. Non ci sono stime esatte, ma è più probabile sentir parlare Vlashki, variante dell’istro-romeno, a Queens che in Croazia.

Nelle scuole pubbliche le lingue parlate dagli studenti sono 176. Nel distretto di Queens soltanto i residenti hanno elencato 138 lingue nel modulo dell’ultimo censimento. Questi i dati ufficiali. Ma è il ‘sommerso’ che conta, ed è la parte più vasta e fragile del patrimonio linguistico di New York.

Il progetto Endangered Language Alliance di Daniel Kaufman, della City University di New York, mira a a salvare le lingue più vulnerabili, e il tempo stringe: “Tra 20, 30 anni – ha detto lo studioso – potrebbe essere troppo tardi”. Oltre a decine di lingue di indiani di America, gli idiomi che potrebbero presto scoparire da New York (e dalla faccia della terra) includono neo-aramaico, caldeo e mandaico della famiglia semitica, il bukhari (incrocio di ebraico e Bukharo che si parla più frequentemente a Queens che in Uzbekistan o Tajikistan), il chamorro delle Isole Marianne, il gaelico irlandese, il reto-romanico della Svizzera e il casciubico della Polonia.

Preservarle non è un compito facile, spiega Robert Holman della Columbia University che collabora all’iniziativa: “Conservare una lingua non è come mettere marmellata in barattolo: una lingua è usata, è in un flusso continuo. Tutti gli immigrati vogliono imparare l’inglese, ma quelle ninne nanne che ti permettono di addormentarti la notte e sognare, noi parliamo di questo”.