Tasse: i conti in tasca alle due aliquote di Berlusconi

di Lorenzo Briotti
Pubblicato il 11 Gennaio 2010 - 16:58| Aggiornato il 12 Gennaio 2010 OLTRE 6 MESI FA

berlusconi_tremontiLa riduzione delle tasse, sempre annunciata e fino ad ora mai realizzata. È giunta l’ora? Berlusconi ha ripetuto: due sole aliquote Irpef al 23 e 33 per cento. Ancora fumo o c’è un po’ di arrosto? Con le due aliquote “berlusconiane” chi paga l’Irpef guadagnerebbe dai 60 ai mille e passa euro al mese, a seconda del suo reddito. Fanno in totale 20 miliardi abbondanti in meno per il fisco. Venti miliardi che il fisco deve trovare altrimenti.

Come? Aumentando le imposte sui consumi o quelle locali. Insomma, meno tasse su stipendi e salari e pensioni ma più tasse altrove, fino a pareggiare i conti. Perchè vanno obbligatoriamente “pareggiati”? Perchè lo Stato italiano, già indebitato al 120 per cento del Pil, altri debiti non ne può fare: solo nel 2010 deve “vendere” 480 miliardi di titoli di Stato e non può permettersi che salgano gli interessi da pagare. Quindi, se riforma sarà, sarà tra due, tre anni. E, se calerà l’Irpef, non potrà calare il monte tasse complessivo.

La prima volta che il premier promette di abbassare le tasse è nel 1994. L’idea prevede l’introduzione di un’unica imposta sui redditi delle persone fisiche pari al 30 per cento. La proposta viene però bollata come un “miracolismo finanziario” da Tremonti e non se ne fa nulla.

Il Cavaliere ci riprova con le elezioni del 2001. Presentandosi da Bruno Vespa con il famoso “contratto con gli italiani”, promette, come oggi, due sole aliquote. Poi, due anni dopo, il Cavaliere annuncia presentando la Finanziaria 2003: «La riduzione dell’Irpef partirà dal prossimo anno e riguarderà 28 milioni di italiani».

Il Parlamento approva davvero la legge delega che contiene la semplificazione  fiscale accompagnata anche da una «armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie», ma anche questa riforma non si trasforma in legge e nel 2005 viene definitivamente messa da parte.

Intanto le aliquote Irpef crescono fino a diventare quattro: 23, 33, 39, e 43 per cento. Domenico Siniscalco, successore al Governo di Tremonti, sottoscrive una riforma che porta ad un taglio di circa 6 miliardi di euro di gettito fiscale ma che lascia invariato il numero delle aliquote. Gli elettori del Polo esultano malgrado gli aumenti per i bolli e per altre imposte marginali che si registrano e un Berlusconi felice di aver comunque ridotto se pur di poco le tasse, promette che nell’anno successivo sarebbe arrivato il taglio della quarta aliquota. Tuttavia, invece di diminuire, le aliquote che stabiliscono quanto pagare in base al reddito, aumentano fino a diventare cinque.

Nel 2006, la Casa della libertà  ci riprova proponendo il quoziente familiare. «Un padre di famiglia pagherà il 30% in meno di tasse», spiega il Cavaliere. Ma al governo arriva Romano Prodi e il quoziente familiare sparisce. Prodi, Vincenzo Visco e Padoa Schioppa riducono il cuneo fiscale per le aziende e inaspriscono i prelievi sui redditi meno bassi.

Nel 2008 al governo torna il centrodestra che, malgrado avesse basato la campagna elettorale contro la politica fiscale di Prodi, lascia invariati gli aumenti voluti dal centrosinistra ed approva solo l’abolizione dell’Ici sulla prima casa.

E siamo ai giorni nostri. Il Cavaliere ci riprova: due aliquote invece che cinque. La prima prevede che  fino a 100 mila euro di reddito si paga il 23 per cento, la seconda invece scatta superati i 100 mila euro annui ed è al 33 per cento. «Stiamo studiando tutte le possibilità per realizzarla» assicura, « la nostra riforma fiscale è la stessa immaginata nel ’94».

La riforma prevede che, a partire da coloro che oggi hanno un reddito a cui viene applicata una aliquota Irpef pari al 27%, vengano dati più soldi in busta paga. Come? È semplice, attraverso una riduzione delle tasse prelevate dallo Stato. I conti in tasca agli italiani li fa il quotidiano “Libero” nell’edizione di domenica 10 gennaio. Ecco cosa cambierà:

Irpef attuale al 23% e 15mila euro l’anno di stipendio. La variazione di reddito in questo caso non avviene dato che l’aliquota non varia.

Irpef attuale al 27% e 28mila euro l’anno di stipendio. Con un’aliquota al 23%, la retribuzione aumenta di 60 euro mensili che corrispondono a 820 euro l’anno.

Irpef attuale al 38% e 55mila euro l’anno di stipendio. Con un’aliquota al 23%, l’ aumento in busta paga è di 524 euro mensili che corrispondono a 7125 euro l’anno.

Irpef attuale al 41% e 75mila euro l’anno di stipendio. Con un’aliquota al 23%, il risparmio per il lavoratore sarà pari a 893 euro al mese che corrispondono a 12150 euro l’anno.

Per quanto riguarda i redditi superiori ai 100mila euro, verrà introdotta una seconda aliquota unica al 33 per cento invece del 43 per cento previsto oggi. Così le riduzioni vanno dai 1415 euro al mese risparmiati (che corrisponde a 19.259 euro annui) fino ai 3621 euro risparmiati al mese di chi guadagna 500 mila euro (pari a 49.250 euro annui).

A bocciare la proposta è la Cgil. Il segretario Guglielmo Epifani parla di una riforma che darebbe poco ai poveri e troppo ai ricchi e che non rispetta neanche la progressività retributiva imposta dall’articolo 53 della Costituzione. «È una mossa furba, propagandistica – commenta Epifani – fatta apposta per rimandare decisioni che dovrebbero essere prese subito. Si propone un progetto globale, che chiede tempi lunghi e approfondimenti, e si tralasciano interventi – come le detrazioni – che potrebbero invece dare sollievo immediato alle famiglie impoverite dalla crisi». Non solo: «Anche le due aliquote di cui si parla sono sbagliate perché la prima, quella al 23%, è troppo alta, dovrebbe scendere al 20. E la seconda, quella del 33, è troppo bassa. Così facendo si promettono grandi risparmi ai redditi medio alti, ma si concede poco a chi ha entrate ridotte».

Cauto è anche il ministro Tremonti, che si dice favorevole a “giocare la partita” ribadendo però che la riforma si farà ma nel lungo periodo. Il ministro sa che la rimodulazione porterebbe ad un prelievo fiscale nettamente inferiore che accompagnato al crollo del Pil di questi mesi creerebbe una situazione insostenibile per le casse dello Stato. E lo scenario per i mesi a venire sembra variare di poco, con le politiche pubbliche sempre più strette dal deficit.

Per fare questa rivoluzione fiscale che alcuni del Governo vorrebbero entro la fine della legislatura, si dovrebbe tagliare, e di molto,  la spesa pubblica dato che il costo della riforma fiscale sarebbe altissimo, tra i 20  e i 30 miliardi, che corrispondono a circa due punti di Pil. Così, per poter operare la riduzione, si dovrebbe spostare la tassazione “dai consumi alle cose”, idea  he piace tanto a Tremonti e al ministro Brunetta e che prevede un aumento dell’Iva. Ciò però ancora non basterebbe: per far fronte alle minori risorse probabilmente si dovrebbe operare aumentando anche le imposte gestite direttamente dalle amministrazioni locali il che corrisponderebbe ad uno spostamento della tassazione piuttosto che a una riduzione.