Regioni di Spagna: “Spesa pazza di politici feudali”. In Italia invece…pure

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 23 Luglio 2012 - 14:53 OLTRE 6 MESI FA
I debiti delle comunità autonome spagnole nell’infografica di Repubblica

ROMA – “Trasferire competenze alle regioni come sanità, educazione o i servizi sociali ha prodotto due conseguenze letali: una spesa senza controlli e la creazione di classi politiche territoriali che ricordano il feudalesimo”. Inorridiranno i leghisti a leggere le parole di Javier Zarzalejos, opinion maker spagnolo e guru del think-tank Faes dell’ex premier José Maria Aznar. Ma inorridiscono e tremano di più gli spagnoli leggendo i bilanci delle regioni autonome: buchi per miliardi di euro e spesa senza controllo. Ma se a Madrid sta arrivando il conto delle autonomie concesse, non molto meglio va da noi, dove diverse città sono ad un passo dal gettare la spugna. La domanda è allora questa: possono Roma e Madrid permettersi ancora questo decentramento? Scrive La Stampa:

Il “la” è partito dalla comunidad autonoma di Valencia. Ma stanno per seguirla altre sei: Catalogna, Castilla La Mancia, Baleari, Murcia, Canarie ed Andalusia. Quasi la metà delle regioni in cui è suddivisa la Piel de Toro, che hanno un rosso, nel 2012, di ben 140 miliardi di euro. Però, nonostante il governo centrale predichi l’austerity e le obblighi quest’anno a non sorpassare l’1,5% del deficit, le “comunidades autonomas” continuano ad avere le mani bucate e sperperare i soldi dei contribuenti.

Il federalismo spagnolo, per anni fiore all’occhiello e modello per molti rivela ora tutti i suoi limiti. Insieme alla crisi bancaria sta mettendo in ginocchio il paese esponendolo agli attacchi e alle speculazioni dei mercati.

Valencia ha dovuto chiedere aiuto al Fondo de Liquidez Autónomica (Fla, 18 miliardi di euro in cassa) appena istituito, una sorta di fondo salva -Stati su scala locale, visto che nessuno le faceva più credito a causa del suo debito di 20,7 miliardi, pari al 19,9% del suo prodotto interno lordo. Ma anche la ricca Catalogna non è da meno: 41,7 miliardi di euro di debiti, pari al 20,7% del Pil. Nonostante questi bilanci da brividi la cosa incredibile è che gli sperperi continuano, come racconta ancora il quotidiano torinese:

“Il caso più clamoroso avviene proprio nella regione di Valencia. L’aeroporto di Castellón, inaugurato nel marzo del 2011 e costato 150 milioni di euro, non ha mai visto un aereo decollare o arrivare. Eppure stanno erigendo all’entrata una colossale statua alta 24 metri, larga 8 e che pesa 33 tonnellate. Il costo? 300 mila euro. Stessa solfa a Toledo, stavolta frutto delle megalomanie socialiste dell’ex esecutivo della Castilla la Mancia (in rosso con 6,5 miliardi, il 18% del Pil). Si tratta di un maxiospedale di 175 mila metri quadrati più giardini di 364 mila metri quadrati, pari a 37 campi di calcio. Con la pretesa di erigere il nosocomio migliore d’Europa, hanno affidato il progetto al carissimo architetto lusitano Álvaro Siza, vincitore del Pritzker, il Nobel dell’Architettura. Costo stimato 300 milioni di euro”.

Storia di Spagna ma storia anche d’Italia, nonostante da noi il federalismo non sia all’altezza di quello madrileno. Su molti quotidiani di oggi campeggia il titolo “Dieci grandi città a rischio crack”. Se in Spagna sono infatti le regioni autonome ad avere i bilanci “muro a muro” con il fallimento, da noi il governo sta facendo i conti alle città che rischiano di arrendersi sotto il peso dei debiti.

Bilanci e rating delle regioni italiane nell’infografica di Repubblica

Napoli e Palermo nei primi posti della lista dei cattivi. Ma a seguire anche Reggio Calabria, finita in rosso già nel 2007-2008 ed ora oggetto di un’inchiesta della magistratura. E poi tante altre amministrazioni, grandi e meno grandi, che potrebbero essere costrette a chiedere il “dissesto”, che significa scioglimento della consiglio, entrata in campo della Corte dei Conti e commissario prefettizio. Questo per colpa, anzi per merito di una norma inserita nella spending review, una norma che rende impraticabile un “trucchetto” che molte amministrazioni utilizzavano per far quadrare dei bilanci altrimenti sbilanciati. La colpa è, semmai, di chi ha amministrato queste città sino ad ora.

La norma in questione impone l’“armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio” svalutando del 25% i residui attivi accumulati sino ad oggi. Il punto è quello delle entrate contabilizzate ma non ancora incassate, come possono essere i proventi delle multe e le tassa sui rifiuti. Cifre importanti, che servono a fare il bilancio di un ente che spesso, per prassi, gonfia queste voci pur sapendo di non riuscire a poter incassare il 100% degli importi messi a bilancio. Incassi molto spesso tutt’altro che sicuri che da ora non serviranno più a far quadrare i conti.

“Tagliando di colpo i residui attivi è chiaro che i bilanci non quadrano più” dice Graziano DelRio, presidente dell’Anci. “Serve più gradualità per dare tempo ai sindaci che hanno utilizzato questa modalità di adattarsi. Perché altrimenti anche Comuni virtuosi, come ad esempio Salerno, a questo punto sono a rischio”.

Ma già prima dell’arrivo di questa novità abbiamo assistito ad un boom di fallimenti dei Comuni. I dati del Viminale dicono che negli ultimi due anni si è passati da1/2 casi l’anno a 25. E il fenomeno, oltre a crescere numericamente, ha raggiunto zone come il centro nord finora vergini.

Appare evidente quindi che l’Italia come la Spagna non possano permettersi questo decentramento che crea “spese senza controlli e una classe politica locale che ricorda il feudalesimo”. E non se lo possono permettere non per motivi politici o ideologici, non perché uno stato centrale forte sia certamente migliore rispetto ad uno con un forte decentramento, ma perché le autonomie costano. Costano per gli stipendi in più che pagano, costano per le spese folli e apparentemente prive di logica, costano, costano e costano. E i soldi ormai non ci sono più.