Jimi Hendrix, tra Woodstock e la morte, 40 anni fa, il 18 settembre. Gennaro Malgieri si chiede: “Come sarebbe ora? Un vecchio…”

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 16 Settembre 2010 - 19:37 OLTRE 6 MESI FA

Jimi Hendrix

Mi è capitato tante volte ascoltando le sue canzoni di immaginare come sarebbe stato Jimi Hendrix oggi che avrebbe avuto sessantasette anni, se quel 18 settembre 1970 non se ne fosse andato per non tornare più.

E, francamente, non sono mai riuscito a vederlo con i crespi capelli bianchi, il volto solcato da rughe profonde, la voce ancora più roca salire a fatica sul palco. Anche gli angeli, soprattutto gli angeli del rock invecchiano e quel che resta è il sogno che hanno scolpito nelle anime giovani di chi ha avuto la fortuna di incontrarli. Ma capita, a “ragazzi invecchiati”, di tuffarsi in un mondo sconosciuto, in un Oceano di possibilità irrealizzate e di intuizioni non verificabili, in una “nostalgia” (se così si può dire) che ti afferra facendoti inabissare nel futuro. In altri tempi, quando ero soltanto un ragazzo e lontano dal diventare il “ragazzo invecchiato” che sono oggi, avrei detto di essere immerso in un magma psichedelico, percorso da fremiti gioiosi e spinti da pulsioni ribelli.

Quarant’anni dopo, chi lo avrebbe detto? Lo devo ad un’occasione nella quale non speravo, semplicemente perché ignoravo che qualcuno la stesse approntando per tutti quei ragazzi che nel 1970 avevano diciassette anni. E così la sorpresa è stata più gradevole di quanto potessi immaginare. Ho ascoltato per ore i dodici brani di Valleys of Neptune, messo in circolazione qualche mese fa, ed ho ritrovato, proprio come lo avevo lasciato, Jimi Hendrix.

Se ne andò senza avvertire nessuno, dopo i trionfi di Monterrey, di Woodstock, di Whigt e, pur non avendolo dimenticato mai, tutto mi sarei aspettato tranne che ritrovarlo nei brani che compose tra il 1969 ed il 1970, lasciandoli in un qualche studio di registrazione. La sorella Janie ha rimesso le mani in questo lascito hendrixiano al solo scopo di ricordarci che la musica del genio di Seattle non è ancora finita, miracolosamente. Come non è finita quella di Monk, di Davis, di Parker, di Mingus.

Con una differenza: la musica di Hendrix è la sola “musica totale” (se il sommo Richard Wagner me lo consente) che al compimento del primo decennio di questo secolo possiamo considerare dell’avvenire, senza neppure provarci a definirla. Jazz, blues, rock, fusion? Tutto questo e niente di questo. Sensazioni. Gratificanti sensazioni di angeliche aperture su armonie telluriche.

Così riconquistiamo l’Experience, senza dimenticare compagni di viaggio come Noel Redding, Mitch Mitchell, ma anche Chas Chandler e Billy Cox, compendio di una visione della musica che è letteratura, sogno, dolcissimo abbandono (Red House), per riprenderci l’Hendrix più visionario che ci aveva catturato con quattro album in vita e si ripropone oggi, come un “Otello bucaniere arrivato a Camelot”, così scrisse Michael Thomas nel 1968, per non andarsene mai più. In effetti, a quattro decenni dalla scomparsa – ebbro, avvelenato ed intorpidito dall’amore, mentre accanto a lui dormiva senza accorgersi del suo precipitare nel buio Monika Danneman – la musica che Hendrix ci ridona è la più moderna possibile dopo gli effimeri trionfi delle avanguardie post underground.

A dimostrazione che quando sollevò le sorti di un rock stanco e ripetitivo con Purple haze, Hey Joe, Foxey Lay, Gypsy Eyes, Voodoo Chile – soltanto per citarne qualcuna – la fascinazione del mito colpì nel profondo chi immaginava la propria musica compiuta e definita: Clapton, McCartney, Townshend, Beck, Richard e tutto il Gotha del pop nella seconda metà degli anni Sessant. Al punto che non ci fu nessuno a detestarlo, foss’anche per comprensibilissima gelosia.