Emanuela Orlandi, torna la “pista dei preti pedofili di Boston”

di Pino Nicotri
Pubblicato il 30 Maggio 2013 - 14:11 OLTRE 6 MESI FA
Emanuela Orlandi

Emanuela Orlandi (LaPresse)

ROMA – Quando manca ormai meno di un mese al compimento del trentesimo anno dalla scomparsa, il mistero di Emanuela Orlandi diventa sempre più un mistero. La pista dei “preti pedofili di Boston”, lanciata con fragore dal Corriere della Sera nell’estate del 2011, diventa ora la pista della ex moglie di Marco Fassoni Accetti a Boston. Dopo la nuova “rivelazione” bostoniana mandata in onda ieri sera da “Chi l’ha visto?”, il Corriere della Sera e il settimanale Oggi sono arrivati in edicola dando infatti per scontato che abbia scritto lei le quattro missive spedite nell’autunno ’83 da Boston a Richard Roth, corrispondente da Roma della catena televisiva americana CBS. Si tratta delle missive con le quali il fantomatico gruppo Phoenix voleva la liberazione di Alì Agca, l’ergastolano che nell’81 aveva sparato a papa Wojtyla, in cambio del rilascio di Emanuela

E’ vero che secondo una perizia dell’epoca le quattro missive sono state scritte dalla stessa mano. Ed è vero che Marco Fassoni Accetti, per tutti ormai MFA, ha dichiarato ai magistrati che la ex sua signora ha soggiornato “a Boston dai primi di agosto a metà novembre del 1983”. Ma è vero anche che fino ad oggi nulla prova che la grafia sia quella della ex moglie di MFA. Questa storia della grafia rischia quindi di essere una intempestiva bolla di sapone come lo scoopone del flauto “di Emanuela” fatto ritrovare dallo stesso MFA alla redazione di “Chi l’ha visto?”.

Oltre al rischio bolla di sapone e oltre alle querele annunciate da MFA, ora c’è il rischio di querele da parte della sua ex consorte, della quale il nome viene inspiegabilmente taciuto.

La faccenda comunque non è ben chiara, anzi è decisamente misteriosa. Per quattro motivi. Il primo è che proprio perché la sua ex è stata a Boston in quel periodo (ammesso che sia vero e che venga provato) MAF avrebbe potuto confezionare meglio, su misura, il suo auto accusarsi di avere collaborato al rapimento di Emanuela Orlandi, consenziente, per conto di un fino ad oggi purtroppo imprecisato e imprecisabile “gruppo di intelligence del Vaticano”.

Il secondo motivo è che fino a ieri lo stesso Corriere della Sera dava per sicuro che la sigla Phoenix era stata usata in quelle lettere dai nostri servizi segreti civili, all’epoca in sigla Sisde. Il giornalista del Corriere della Sera Fabrizio Peronaci, autore degli articoli in questione, e Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, lo hanno anche scritto nel loro libro “Mia sorella Emanuela”. E vi hanno sostenuto che a dirlo a Pietro è stato già nell’83 l’amico di famiglia Giulio Gangi, all’epoca da poco tempo in servizio proprio al Sisde.

Il terzo motivo è che Gangi, da me consultato, nega recisamente la circostanza: “Mi sono limitato a dire “Boh, forse sono i nostri che cercano di muovere le acque” quando si seppe della prima lettera firmata Phoenix. Oltretutto, io al Sisde ero già stato allontanato dalle ricerche riguardanti Emanuela”.

Il quarto motivo è che l’ex colonnello Guenter Bohnsack della Stasi, nome dei servizi segreti della Germania allora comunista, il 3 giugno 2002 mi ha dichiarato che era la X Divisione della Stasi a fabbricare quei comunicati così come fabbricava anche quelli a firma del fantomatico Fronte Anticristiano Turkesh.

Insomma, tanto per cambiare anche per le lettere da Boston c’è da aspettare altre verifiche. Spostando così per l’ennesima volta in avanti il momento della verità. Che somiglia purtroppo sempre di più al famoso arrivo di Godot.