“Brava Marine Le Pen addio Fini”: Vittorio Feltri su un successo e un fallimento

di Redazione Blitz
Pubblicato il 7 Aprile 2014 - 08:07 OLTRE 6 MESI FA
"Brava Marine Le Pen addio Fini": Vittorio Feltri su un successo e un fallimento

Marine Le Pen (Lapresse)

ROMA – “Brava Marine Le Pen, addio Gianfranco Fini“: Vittorio Feltri cerca spiegazione di un successo e di un fallimento. Fra Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, che si è affermata alle elezioni amministrative in Francia e Gianfranco Fini, disperso nel nulla della politica italiana dopo avere sacrificato sull’altare del Pdl di Berlusconi l’eredità del Movimento Sociale Italiano, che differenza c’è?

Vittorio Feltri sul Giornale ha cercato di capire e di farci capire, in un articolo sul Giornale:

“la spiegazione di un successo e di un fallimento”

che

“è tutta qui: chi non si aggiorna è un perdigiorno e si dissol­ve”.

Vittorio Feltri parte con il tono della favola:

“C’era una volta una de­stra un po’ becera, fa­scistoide, abbastan­za razzista, che in Francia era rappresentata da Jean-Marie Le Pen, un uomo duro e consa­pevole di doverlo essere perché il suo partito, per quanto rime­diasse sempre qualche succes­sino, combatteva contro una maggioranza sinistroide domi­nante. In Italia lo stesso tipo di destra era capitanato da Gior­gio Almirante, abile oratore che presto cedette lo scettro a Gianfranco Fini, dovendo fare un passo indietro per motivi di salute.L’erede aveva una carat­teristica in comune con colui che lo aveva promosso e spon­sorizzato: un notevole talento dialettico e la capacità di cavar­sela brillantemente nei dibatti­ti televisivi, nei comizi, in ogni circostanza nella quale fosse ri­chiesta lingua lunga.

Mi riferisco agli anni Ottanta e Novanta, quando i principali avversari della sinistra erano gli ex fascisti, considerati gen­te di serie B, ignoranti e privi di char­me. Andiamo oltre. Col passare del tempo, il vecchio Le Pen si ritirò e la­sciò alla figlia Marine il compito di condurre il partito. Un partito solido, ma minoritario e condannato a rima­nere tale. Così almeno sembrava.

L’uscita di scena di Almirante favo­rì l’ascesa di Fini, che, tuttavia, col suo Msi non pareva attrezzato per sfondare il tetto del 5-6 per cento dei consensi.

Da quei tempi molta acqua è scorsa sotto i ponti. Siamo arrivati al XXI se­colo ed è giunto il momento di fare un consuntivo sugli ex fascisti.

Marine Le Pen, avendo rinnovato la li­nea politica paterna, trascinandola fuori dal «recinto nero» e cavalcando un nazionalismo razionale e un an­tieuropeismoavveduto e fondato su elementi concreti, sta trionfando in Francia, al punto di essere in procin­to di conquistare la maggioranza. Fi­ni, viceversa, pur essendosi mosso da una buona posizione grazie all’ap­parentamento con Forza Italia, gui­data da Silvio Berlusconi, è presso­ché scomparso, lui e il gruppone di Al­lenza nazionale, figlia del Msi. Do­manda: perché Marine è decollata e Gianfranco si è inabissato? Un moti­vo ci sarà, stante il fatto che la situazio­ne italiana e quella francese non so­no poi tanto diverse. Cerchiamo di ca­pire.

Madame Le Pen non si è mai aggan­ciata a nessun carro. Ha creduto nel­la propria forza, nelle proprie idee, ed è andata avanti per la sua strada si­cura di avere davanti a sé delle prate­rie da invadere. E le ha invase con te­nacia, interpretando i sentimenti dei transalpini in modo corretto.

Ovve­ro: ostilità verso un’Europa unita che, di fatto, unita non è; lotta all’im­migrazione clandestina indiscrimi­nata; nazionalismo moderato;prote­zione dell’economia nazionale; dife­sa della patria; nessuna concessione alle mode progressiste. Insomma, ir­robustimento dello spirito francese in opposizione all’euroentusiasmo della sinistra bancaria e finanziaria.

Risultato: il Fronte nazionale ha mar­ciato speditamente diventando pro­tagonista della competizione politi­ca transalpina. Esagero: si è attrezza­to per vincere ed imporre la propria visione politica. Piaccia o non piac­cia, questo è il concetto.

Fini, poveraccio, è rimasto a secco. Peggio: non esiste più, scomparso, travolto dai propri errori macroscopi­ci. Egli infatti, dopo aver raggiunto il 15 per cento circa dei voti, si è monta­to la testa. E l’ha persa. Pur di andare al governo si è associato a Berlusco­ni, col contributo del quale ha ottenu­to poltrone ministeriali e di sottogo­verno, è diventato vicepresidente del Consiglio e successivamente presi­dente della Camera. Un’ottima per­formance sotto il profilo dell’occupa­zione del potere. Nel momento in cui Alleanza nazionale confluì nel Popo­lo della libertà, cioè nel partito unico di centrodestra, Fini si persuase di po­ter menare il torrone a piacimento. E tentò di esautorare Berlusconi piaz­za­ndosi al suo posto o almeno di con­dizionarne l’attività, spostando a sini­stra l’asse politico. Velleità. Errore tat­tico e strategico.

Anziché continuare a essere avver­sario della sinistra, egli mirò a com­piacerla allo scopo di stabilire con es­sa una sorta di tacita alleanza. In pra­tica Fini desiderava – ingenuamente – far fuori Berlusconi onde ingraziar­si gli ex comunisti, senza la cui benedizione in Italia non sei legittimato a fare politica. Comprendo la debolez­za dell’erede di Almirante, ma ne con­danno la condotta. In effetti i progres­sisti hanno sostenuto Fini finché que­sti si è battuto per sfasciare il Pdl, fa­cendo il loro gioco; ma quando il cen­trodestra è stato costretto ad abban­donare il governo, i partiti di sinistra, soddisfatti, hanno scaricato l’«infiltrato» non avendo più bisogno di lui.

Oggi, l’ex presidente della Camera ed ex numero due del Pdl è fuori dal Parlamento: uno zero assoluto. Ha fatto una fine miserrima e difficilmen­te potrà risorgere. Mentre la sua omo­loga, Marine, che non ha mai mirato alle poltrone, bensì all’affermazione dei propri ideali – giusti o sbagliati che siano – sta strappando risultati mirabolanti. La coerenza e la fedeltà ai princìpi pagano. Purtroppo si paga­no anche le deviazioni utilitaristi­che: e il debito di Fini in questo senso è enorme, impossibile da saldarsi”.