Legge di stabilità, Gramellini, Travaglio e Scanzi: prime pagine e rassegna stampa

di Redazione Blitz
Pubblicato il 16 Ottobre 2013 - 08:46 OLTRE 6 MESI FA

Il Corriere della Sera: “Pochi tagli e mini aumenti in busta paga”. Cifre sull’acqua. Editoriale di Enrico Marro:

“Speravamo in una legge di Stabilità di svolta, ma non lo è. Il presidente del Consiglio, Enrico Letta, aveva alimentato grandi aspettative. La manovra, disse in tv a Porta a Porta , «avrà come cuore l’intervento per ridurre le tasse sul lavoro e aumentare i soldi in busta paga dei lavoratori». Ma a conti fatti, con un misero miliardo e mezzo nel 2014, le retribuzioni nette aumenteranno, se va bene, in media di 10-15 euro al mese. Come nel 2007, non se ne accorgerà nessuno. Non passa di qui il rilancio dei consumi. E, se non riparte la domanda, non saranno tardivi sgravi sull’Irap a rendere le imprese più competitive né alcuni incentivi a convincerle ad assumere. Lavoratori e pensionati si accorgeranno invece subito dei tagli e dovranno fare i conti con nuove tasse come la Tresi per capire se rispetto a prima ci guadagnano (forse, se hanno solo la casa d’abitazione) o ci rimettono (probabilmente, se hanno più abitazioni o se inquilini). Saranno in balia delle decisioni dei Comuni sulla stessa Tresi e delle Regioni, che si rifaranno sui cittadini per il miliardo di tagli subiti.
La manovra varata ieri dal Consiglio dei ministri è insufficiente a rilanciare lo sviluppo. Rischia invece di replicare un brutto film già visto. Appena un anno fa. La seconda manovra del governo Monti puntava anch’essa sulla riduzione dell’Irpef, in maniera diretta, anziché attraverso le detrazioni. Tagliava infatti di un punto le due aliquote più basse. Su questo si impegnavano ben 4,2 miliardi nel 2013. In Parlamento la manovra fu «riscritta» dai capigruppo della maggioranza Brunetta e Baretta. Le aliquote Irpef rimasero immutate e in compenso aumentarono le detrazioni sui carichi familiari e si stabilì che non sarebbe scattato l’aumento dell’Iva a luglio. Quella legge di Stabilità non ha rilanciato la crescita, anzi la recessione è stata maggiore del previsto. Anche questa volta il Parlamento cambierà la manovra. Speriamo senza assalti alla diligenza”.

Pd, via alla corsa Ed è già scontro sulla legge elettorale. Articolo di Ernesto Menicucci:

“Primo Gianni Cuperlo, poi Matteo Renzi, Gianni Pittella, Pippo Civati. Non è il risultato delle primarie del Pd per la segreteria, ma solo l’ordine sulla scheda elettorale. C’è chi fa scongiuri, chi scherza: «Io ultimo? Gli elettori ribalteranno il risultato», dice Civati. Il senso, comunque, è chiaro: la «macchina» organizzativa dei Democratici, verso la scelta dell’8 dicembre, è messa in moto. L’altra curiosità delle schede è che Renzi è l’unico a comparire col «suo» nome: Cuperlo è Giovanni «detto Gianni», Pittella all’anagrafe fa Giovanni Saverio Furio (anche lui «detto Gianni»), mentre «Pippo» Civati — in realtà — si chiama Giuseppe. Le tappe del percorso le illustrano il segretario Guglielmo Epifani e il responsabile amministrativo Davide Zoggia: congressi di circolo e assemblee provinciali (fino al 6 novembre), primo «giro» di votazioni nei circoli, liste per l’assemblea e infine il voto «aperto». Chi non è iscritto, deve versare due euro e sottoscrivere una carta d’intenti. Secondo Epifani «il clima è disteso, ma c’è anche una discussione profonda: il confronto congressuale è un momento insopprimibile di democrazia per i partiti veri». Chi vincerà «sarà il segretario di tutti» e i quattro in lizza «hanno tutti le stesse possibilità». Il segretario lancia anche un’iniziativa: «Sul mio sito ci sarà identifypd , strumento di ascolto e dialogo, aperto a chiunque abbia qualcosa da dire».
E il primo argomento in campo, nella sfida a quattro, è la riforma della legge elettorale. Da una parte Renzi, dall’altra Cuperlo, in mezzo gli altri. Sospetti, veleni, forzature: la posta in gioco è alta. Ieri, doppia riunione: una al partito, con Epifani e le varie «anime» (Luciano Violante, Luigi Zanda, Maurizio Migliavacca, Anna Finocchiaro, Matteo Richetti, Alfredo D’Attorre); l’altra a Palazzo Madama, al gruppo del Senato. Su un punto sembrerebbero tutti d’accordo: «Superare il Porcellum, confermare il bipolarismo, andare verso il doppio turno». Lo dicono i renziani, ma lo sostengono anche la Finocchiaro e Nicola Latorre: «Siamo d’accordo — dicono — sul fatto che il doppio turno, di lista o di coalizione, sia uno dei punti fermi per garantire governabilità». Il problema, casomai, sono i tempi”.

La rabbia di Berlusconi: come posso restare con chi mi accoltella? Il retroscena di Lorenzo Fuccaro:

“«Tanto tuonò che piovve», dice un adagio popolare che descrive bene la situazione nella quale si trova il Pdl-Forza Italia. «Si procede a zig-zag, può capitare di tutto», ammette a malincuore un esponente dell’ala alfaniana. Il barometro indica burrasca, nonostante il brusco richiamo di Silvio Berlusconi, rivolto a tutte le componenti, a non lasciarsi andare a polemiche attraverso i giornali e tenere unito il partito.
L’ex premier è rientrato nel tardo pomeriggio a Roma, accompagnato dalla fidanzata Francesca Pascale. E il suo umore è a dir poco nero. «È furibondo con il Pd che vuole votare la sua decadenza a scrutinio palese e non segreto», rivela un parlamentare che ha avuto modo di sentirlo. Non solo. Berlusconi continua a domandare a chiunque lo incontri: «Come si può stare al governo con chi non ha il minimo riguardo per il leader di un partito votato da milioni di persone? Come è possibile avere come compagno di viaggio uno che ti accoltella alle spalle?». Renato Schifani, capogruppo in Senato del Pdl, rende esplicita la preoccupazione sollevata dall’ex premier perché infatti fa notare: «È evidente che i margini di agibilità politica della maggioranza si restringeranno sempre di piu, perché l’agibilità politica di una maggioranza si misura anche sui comportamenti reciproci».
Anche i meno inclini al pessimismo tra i dirigenti di primo piano del partito ammettono che il rischio della crisi è quanto mai attuale. «Sarà l’effetto di un combinato disposto tra la querelle sul voto di decadenza da senatore e le tensioni sulla legge di stabilità, cioè sulle misure con le quali di fatto si aumenterebbero le tasse», prevede un deputato”.

La prima pagina di Repubblica: “Letta: meno tassa, salva la sanità”.

Il Fatto Quotidiano: “Così i saggi costituenti pilotavano i concorsi”.

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La Stampa: “Meno tasse a imprese e famiglie”. Scelte prudenti ma la strada è lunga. Editoriale di Paolo Baroni:

“Da anni la sera del varo della manovra era vissuta dal Paese come uno dei momenti più ansiogeni in assoluto. In questa fine di 2013 invece si tira il fiato, si finisce di pedalare in salita, come ama ripetere il premier Enrico Letta. Non c’è infatti la mannaia che cala sulle spese vive che interessano i cittadini, come la sanità, e non ci sono nemmeno le tasse che vampirizzano buste paga e conti correnti a fine anno, le solite accise sui carburanti o magari l’aumento del prelievo sulle rendite finanziarie al 22% che era spuntato negli ultimi giorni.

Questo non vuol dire che non ci siano risparmi, anche abbondanti a carico dei ministeri e degli enti locali (3,5 miliardi su 11,5 di manovra), o un aumento delle entrate (attenti ai bolli sulle attività finanziarie). Ma una volta tanto la manovra, che oggi si chiama legge di stabilità, è molto meno pesante rispetto agli anni passati. Niente lacrime e sangue, ma cautela e oculatezza.

E’ vero che imprese e sindacati non hanno accolto con un applauso gli annunci arrivati eri sera da Palazzo Chigi, soprattutto perché a fronte di un’economia ancora in coma gli stimoli alla crescita, a cominciare dal taglio del cuneo fiscale, sono poca cosa rispetto alle attese (10,6 miliardi in tre anni rispetto ai 5 immediati prospettati sino all’altro ieri, per non dire dei 10 in un anno chiesti da Confindustria). Ma un conto compensa l’altro: se non si cala la scure o non si spinge sulle entrate ovviamente si ha meno da spendere”.

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Schiaffo ad Obama, default a un passo. Dal corrispondente Maurizio Molinari:

“24 ore dal default è il duello fra Casa Bianca e Tea Party che immobilizza il Congresso e spinge in basso gli indici di Wall Street. La Casa Bianca guarda con favore alla mediazione al Senato fra i democratici di Harry Reid e i repubblicani di Mitch McConnell perché il testo che sta prendendo forma prevede un prolungamento limitato del finanziamento del governo e del tetto del debito senza aggiungere tagli alla spesa e dunque senza indebolire l’Obamacare, la riforma della Sanità.

Ma i repubblicani alla Camera, spinti dalla combattiva pattuglia ultraconservatrice del Tea Party, entrano a gamba tesa con una legge affidata al presidente John Boehner che va in tutt’altra direzione perché ai prolungamenti a tempo previsti dal Senato aggiunge interventi severi contro Obamacare: rinvio di due anni della tassa sui macchinari, revisione dei sussidi e cancellazione delle facilitazioni per membri del Congresso, ministri, vicepresidente e lo stesso presidente.
Boehner fa proprie le posizioni del Tea Party e prova a bloccare l’intesa al Senato, isolando i repubblicani più aperti al compromesso. «È ora di proteggere gli americani dall’Obamacare» promette Boehner, adoperando un linguaggio di sfida verso la Casa Bianca. E come se non bastasse aggiunge: «Non andremo in default» facendo propria la posizione del Tea Party secondo cui anche superando la scadenza del 17 ottobre fissata dal Tesoro per aumentare il debito, l’America avrà risorse a sufficienza per pagare gli interessi sui titoli emessi”.

Il Giornale: “Manovra contentino”. Editoriale di Nicola Porro:

caldo la Finanziaria di Letta si può definire democristiana. Nel senso che non sarà truculenta nei tagli e nelle imposte, ma neanche rivoluzionaria. Non si può certo dire che le larghe intese abbiano partorito una mano­vra strutturale, quella di cui si riempiono la bocca tutti i benpensanti. Nelle prossime ore vedremo cosa c’è di buono e ciò che ci sa­rà di sconveniente. Per ora si può dire che nella sua dimensione e nella sua macro­struttura (11,5 miliardi per il 2014) è una fi­nanziaria light. La riduzione del costo del la­voro ( sommando i benefici per le imprese e quelli per i dipendenti)per l’anno prossimo vale circa tre miliardi. Pochino (ma l’unica cifra possibile senza fare rivoluzioni) su un cuneo tra lordo e netto in busta paga pari a 300 miliardi di euro l’anno. Non ci saranno tagli alla sanità, ma generiche (e si suppone lineari) sforbiciate alle spese dello Stato e delle Regioni.Altre risorse (3,2 miliardi)ver­ranno da privatizzazioni immobiliari e rical­colo delle perdite bancarie. Anche sul fron­te fiscale ( e questo è un dato positivo)l’inter­vento sarà leggero. E di poco superiore a un miliardo: ma conterrà un inasprimento del­la patrimoniale sui risparmi degli italiani (il cosiddetto bollo sui depositi). Diciamo subito che i conti non tornano. La manovra infatti è da 11,5 miliardi e le co­pert­ure di cui ha parlato il premier sono vici­ne agli 8,5 miliardi: mancano all’appello tre miliardini. Letta dice che ciò deriva dal divi­dendo europeo: più prosaicamente si po­trebbe pensare ad un innalzamento del defi­cit di qualche decimale, ma sempre sotto lasoglia del 3 per cento”.