Il 20 ottobre si celebrerà la giornata mondiale dell’Osteoporosi, la malattia che svuota le ossa

Pubblicato il 13 Settembre 2010 - 17:16| Aggiornato il 14 Settembre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Una donna su due non sa di avere l’osteoporosi, patologia del sistema scheletrico rottura anche di polso e vertebre, e lo scopre solo quando si rompe il femore. In Italia sono 90mila i casi ogni anno dopo i 60 anni, ma la malattia è ancora sottovalutata, tanto che per gli esperti al momento della frattura ”la metà dei pazienti non sa di esserne colpita”.

Il 20 ottobre si celebrerà la giornata dell’osteoporosi, cui aderiranno 70 ospedali premiati dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda) con il ‘bollino rosa’, mettendo a disposizione servizi di prevezione gratuiti, in particolare per le donne. Alla cura dell’osteoporosi sono destinati ogni anno 26 miliardi di euro, ma nonostante questo ”è incredibile come il 48%” del campione di donne intervistate che hanno subito una frattura di femore ”non sapesse di avere l’osteoporosi e solo il 12% assumesse farmaci”, afferma Maria Luisa Brandi, professore dell’Università di Firenze.

La mancata prevenzione fin da piccoli aggrava la situazione perché, come precisa Raffaella Michieli, segretario nazionale della Società italiana di medicina generale, ”in teoria andrebbe promossa già nella pancia della mamma. E’ molto importante l’alimentazione e l’eccessiva magrezza di molte adolescenti aumenta il rischio di ammalarsi: fino a 25 anni la massa ossea cresce fino a determinare il suo picco, poi tende a consumarsi con il passare degli anni. A questa età sono fondamentali peso proporzionato all’altezza, attività fisica, sole e regolarità ormonale”.

Infine, ricorda Marco D’Imporzano, direttore della divisione di Ortopedia e Traumatologia del Gaetano Pini di Milano, quando insorge la frattura ”è corretto procedere immediatamente con l’intervento chirurgico, ma è fondamentale verificare prima lo stato di salute generale del paziente e fare poi attenzione al decorso post-operatorio, che deve essere in grado di mobilizzare il paziente entro uno o due gioni”.