Don Armando e Adriana: l’amore (possibile) tra il parroco e una vedova

Pubblicato il 22 Maggio 2012 - 12:49 OLTRE 6 MESI FA

TORINO – Il sacerdote e la vedova. La canonica e le voci di paese. L’amore, forse, che è ancora un tabù nel loro caso. A Torre Pellice, in provincia di Torino, tutti sanno che la lapide della signora Adriana Torchi, vedova insegnante in pensione, non passa inosservata. C’è una scritta che la distingue da tutte le altre. Le lettere d’ottone sul marmo bianco compongono un epitaffio struggente che è insieme atto d’amore e di coraggio: “Sarai sempre nel mio cuore. Don Armando”. Lui, il sacerdote, che sfida chiacchiere e maldicenze, per dichiarare pubblicamente l’affetto verso quella donna con cui aveva condiviso interessi e un pezzo di vita. Sicuramente affetto, forse amore. Il paese chiacchiera, ma in fondo, cosa importa se davvero sia stato amore fisico o solo “affinità elettive” senza risvolti carnali?

La Stampa, questo anziano parroco piemontese, lo è andato a scovare per cercare risposte. Magari il cronista si aspettava di essere respinto, poteva pensare che tutto venisse smentito e ridimensionato, che Don Armando avesse fretta di liquidare tutta la questione sotto la voce “cattiverie di paese”. E invece ha raccolto una vera e propria dichiarazione d’amore: “Una donna meravigliosa, fantastica. Unica. Da lei ho imparato tanto. Tutto direi. E comunque molto di più di ciò che si impara in seminario. Da lei ho capito cos’è la vita: mi ha aperto gli occhi e la mente. Con lei ho compreso che il Dio a cui ho votato la mia esistenza non punisce ma che accoglie. È un Dio che perdona. Che comprende le debolezze umane. Non si vendica sugli uomini, li ama”. Quanti, anche coppie sposate, possono dire di aver trovato una tale “corrispondenza” con un altro essere vivente?

Amore? Affetto casto? “Io non sono mai venuto meno alla promessa che ho fatto. Mai, mai, mai. È vero, le ho voluto bene. Ma il bene che deriva dal fatto che lei era una persona speciale. Adriana era una gran signora, un’insegnante e di profonda cultura”.

Nel 2011, quando la signora Adriana è morta, Don Armando ha sfidato i pregiudizi decidendo di rendere pubblico e visibile quell’affetto che per decenni è nato e cresciuto tutto sotto traccia. Mettendo, nero su bianco, quell’epitaffio sulla lapide della donna: “Ma, guardi, bene non me lo ricordo neppure più. Comunque era una cosa che sentivo e che sento. Io non mi sono mai curato delle voci e delle maldicenze. Io sono sempre andato per la mia strada. Chi mi conosce sa come sono fatto. Non si può giudicare una persona da un epitaffio”.

Eppure quel sentimento qualcosa ha fatto vacillare: “Lo ammetto, a un certo punto ho anche pensato di mollare tutto. Di lasciare questa parrocchia. Ma poi, per fortuna, il vescovo è intervenuto. Ci siamo parlati. È grazie a lui se sono ancora qui a portare avanti la mia missione, nonostante tutto e tutti”. E Adriana? “Vivo nella speranza di poterla reincontrare dopo la morte. Di ritrovarla e di ripartire da lì”. Se non è amore questo, somiglia comunque parecchio alla sua forma più sublime. E pazienza se i protagonisti sono un prete di montagna e una vedova in pensione.