Omicidio Sandri, il padre di Spaccarotella: “Mio figlio non è un killer”

Pubblicato il 22 Gennaio 2011 - 11:06 OLTRE 6 MESI FA

“E’ impensabile sostenere o ipotizzare anche solo per assurdo, che mio figlio, un ragazzo perbene, un servitore dello Stato con un curriculum di servizio di tutto rispetto, esca di casa con l’intenzione di sparare ad un altro uomo”. E’ quanto afferma Vito Spaccarotella – padre dell’agente della Polstrada, Luigi, condannato in appello a 9 anni e quattro mesi per l’uccisione di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio, in un’area di servizio in provincia di Arezzo nel 2007 – in una lettera a Piero Sansonetti, direttore di Calabria Ora.

Dopo il primo pronunciamento per omicidio colposo, Spaccarotella, il primo dicembre scorso, è stato condannato per omicidio volontario. ”Che mio figlio abbia sparato per uccidere, onestamente, – sostiene il genitore – è un fatto che non sta né in cielo, né in terra e questo potrebbero testimoniarlo anche le pietre. Che, al contrario, via sia stato un evento colposo è un dato provato da tutte le perizie”. ”Mio figlio era lì, anche quella volta – prosegue Spaccarotella – per fare il suo mestiere; per servire lo Stato; per onorare la divisa; per rischiare la vita in cambio di un misero stipendio. E oggi anche lui è un uomo distrutto. La sua vita è distrutta. La sua famiglia è distrutta. Come lo è la famiglia di Gabriele, lo so bene, che ha sofferto anche molto più di noi, e alla quale va la mia solidarietà. Ma il loro atroce dolore – si chiede – sarà più sopportabile se potrà creare nuovo dolore, nuove pene ad altre persone? Io non lo credo, non ho mai pensato che fosse questo il senso della giustizia”.

Nella lettera il genitore del poliziotto parla anche della paura ”di essere uccisi da quei tifosi che ci minacciano sull’onda dello slogan ‘colpire i poliziotti e i loro parenti”’. Sansonetti, nella risposta, dice che Spaccarotella ”paga per tutti” e denuncia l’emergere di una ”nuova tendenza culturale” nel Paese ”quella al linciaggio” e aggiunge ”che non si può avere un atteggiamento ‘alterno’ che cambia a seconda di chi sia l’accusato e chi l’accusatore”.