Il primo chip commestibile potrebbe essere vicino: uno studio dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Milano ne ha infatti dimostrato per la prima volta la fattibilità . Prendendo in prestito un materiale ottenuto a partire dalla corazza dei granchi. Il prototipo, descritto sulla rivista Nanoscale, fa compiere un ulteriore passo avanti al campo in forte sviluppo dell’elettronica commestibile, con un obiettivo preciso: sviluppare dispositivi edibili in grado di entrare nel corpo senza nuocere alla salute.
Il chip commestibile
Le applicazioni variano dalla diagnosi e trattamento di malattie al campo alimentare, per monitorare la qualità dei cibi. I sensori hanno bisogno di circuiti elettrici per poter funzionare. Tuttavia, quelli presenti nei nostri oggetti quotidiani non sono adatti ad essere ingeriti. La sfida di riuscire a costruire un circuito commestibile in grado di funzionare nel corpo senza danneggiarlo è stata raccolta dai ricercatori coordinati da Mario Caironi. Che hanno deciso di provare a stamparlo attraverso una tecnica a getto di inchiostro. Molto simile a quella utilizzata dalle classiche stampanti. Al posto del normale inchiostro, però, hanno usato una soluzione di oro liquido. Questo metodo permette di produrre circuiti complessi in modo più veloce ed economico rispetto ad altre tecniche. Inoltre, l’oro è un materiale che può essere ingerito senza provocare problemi: viene infatti usato in pasticceria e in cucina come decorazione.
La corazza dei granchi
L’altro elemento fondamentale del dispositivo è il chitosano, un materiale commestibile ottenuto a partire dalla corazza dei crostacei come granchi e gamberetti. Un sottile strato formato da questo materiale è in grado di assorbire l’acqua normalmente presente nel corpo. Permettendo al dispositivo di funzionare.
“Questi dispositivi potrebbero essere impiegati nella diagnostica per costruire pillole commestibili e digeribili in grado di eseguire una serie di analisi lungo l’intestino. E, all’occorrenza, di rilasciare farmaci”, sottolinea Alessandro Luzio, uno degli autori dello studio. “Ci sono poi le applicazione nel campo alimentare – aggiunge Luzio – per esempio per controllare la qualità del cibo o per rilevare la presenza di contraffazioni”.