Precari con Iva: un milione di giovani. Come cambia il mercato del lavoro

Pubblicato il 10 Dicembre 2009 - 16:30| Aggiornato il 14 Dicembre 2009 OLTRE 6 MESI FA

1192723_ivaLa “partita Iva”: era il segno, il marchio della piccola e familiare impresa, il brand della “Italia che lavora”, l’orgoglio di non essere dipendenti, impiegati, “fannulloni”. Ora è per quasi un milione di giovani italiani una condanna, una fregatura, la prigione di un precariato a vita di cui la partita Iva butta via la chiave. Con la partita Iva si dice sì a salari dimezzati, no ad assistenza sociale, si pagano contributi alti e non si avrà mai pensione. E il tutto per legge e non per caso o sfortuna.

Maschio, circa 30 anni, reddito attorno ai 20 mila euro annui. Il ministero dell’Economia e il Censis lo disegnano così.  È l’identikit del «capitalista individuale», l’«uomo azienda» ovvero il giovane che sceglie (almeno in teoria) di offrirsi come autonomo nel mercato del lavoro aprendo, come si dice, partita Iva.

Ma la realtà è ben diversa: il boom delle partite Iva, secondo il rapporto Censis 2009 sono aumentate del 16.3% raggiungendo quasi quota un milione,  non è necessariamente sintomo di un’economia sana e di un paese ricco di idee, anzi.

Spesso, sempre più spesso, la partita Iva è un’ultima spiaggia, l’unica alternativa alla disoccupazione. Una volta, pur di lavorare,  ci si accontentava di un co.co.co, contratto di collaborazione continuativa o di un contratto a progetto. Adesso queste sono forme di precariato di lusso, fuori portata specie per quei giovani che si trovano davanti ad aziende che puntano alla sostituzione dei contratti flessibili con formule, ancora, più esternalizzate e a basso costo.

Spiega Flavio, una trentina d’anni, commercialista che sta cercando di diventare consulente del lavoro: “Fino a due anni fa non mi era mai successo. Ora la situazione è cambiata, seguo almeno 7-8 giovani che hanno dovuto aprire partita Iva per fare lavoro dipendente. Io quasi sempre li scoraggio, gli spiego che  ci rimettono e basta, ma loro mi dicono che non hanno alternativa”.  Gente, prosegue il commercialista, che non ce la fa: “Guadagnano 1000 euro al mese, devono pagarci me, e spesso non lo fanno, e le tasse. Soprattutto non hanno nulla da “scaricare” rispetto al fisco perché sono dipendenti non hanno spese fatturabili, per loro la partita Iva non ha nessun senso”.

E i numeri dell’Italia in crisi confermano le parole del professionista: calano le diverse forme di lavoro a termine (-9,4%), le collaborazioni a progetto (-12,1%) e quelle occasionali (-19,9%).  Cala tutto tranne il numero delle partite Iva che godono, soprattutto, di una situazione normativa quantomeno incerta.

Non solo: del milioncino di partite Iva nel nostro paese più del 50% è monocommittente, ovvero lavora per un solo cliente. L’anomalia è servita, quasi tutte le imprese con un solo cliente chiuderebbero presto bottega. Le partite Iva invece no, proliferano. Come è possibile? Semplice: “A parte alcune eccezioni – dice Flavio –  non sono aziende, ma lavoratori dipendenti”. Con tanto di obblighi tipici del lavoratore subordinato: presenza in azienda, orario di lavoro vincolato e utilizzo del materiale fornito dalla società che (non) lo assume.

Aprire una partita Iva: si entra all’Agenzia delle Entrate come privati cittadini, si compila un modulo e si esce come imprenditori. Peccato, però, che nella realtà non lo si sia affatto: né prima né dopo la firma sul modulo. Capita, sempre più spesso, ai lavoratori subordinati: segretarie, comparse, lavoratori dello sport e dello spettacolo, persino commessi e muratori. L’ultima frontiera? I raccoglitori di pomodori.  Tutti trasformati, “come per incantamento”, in imprenditori di sé stessi: è l’ultima fase di una trasformazione progressiva del mercato, dal lavoratore inamovibile a quello flessibile, da quello flessibile a quello genuflesso. Con che conseguenze? E a che prezzo?

Spiega ancora il commercialista: “Per l’azienda quasi nullo: al contrario è un bel risparmio e, soprattutto, un sacco di grane in meno. Un lavoratore autonomo è fuori dall’impresa, non costa quasi niente in tasse e si può tagliare in qualsiasi momento evitando grane sindacali di qualsiasi genere”.

Per il lavoratore, invece, dipende. Molto di rado ci si guadagna qualcosa. Anzi. C’è un primo costo secco, il commercialista. Chiunque decida di non servirsene prima o poi paga. Le norme sono centinaia, cambiano continuamente. Le scadenze fiscali sono continue, pressanti e fluttuanti. O si è già commercialisti, quindi, o è meglio cercarne uno e pagarlo. Poi ci sono le tasse: ad un dipendente vengono conteggiate e prelevate dalla busta paga. Decurtazione dolorosa ma, almeno, automatica. Un autonomo, invece, entra nella giungla fiscale. C’è innanzitutto la gestione separata Inps: iscrizione obbligatoria per tutti i mestieri che non contemplano ordine professionale e quota annuale di contributi attorno ai 2600 euro annui per avere una pensione, se tutto va bene, di 500-600 euro al mese. Poi, quando necessario, c’è da pagare l’iscrizione in camera di commercio: 88 euro all’anno. E, ovviamente l’Irpef, una quota attorno al 23% se uno fattura meno di 20 mila euro, a salire in base al reddito. Le scadenze, di solito, sono trimestrali e, giusto per complicare un po’ la situazione ci si mettono le proroghe, gli acconti e gli spostamenti di termini. Senza considerare il tempo che la gestione della partita Iva si “mangia”: tempo di lavoro extra e non retribuito.

Ma chi sono le nuove partite Iva? Giovani  con il gusto del rischio? Assolutamente no. Qualche esempio: Samantha ha 36 anni, una bimba di un anno e un marito che lavora in nero. Lei  ha una laurea in lettere e sta per prenderne una seconda  ma, un po’ per scelta di vita un po’ per mancanza di possibilità migliori, ha deciso di lavorare con la danza. Per anni ha lavorato in nero, retribuzioni da fame e vertenze che non si vincono mai.

Poi, dopo 10 anni di insegnamento sono arrivati i primi contratti, ovviamente stagionali. Con la crisi, invece, un nuovo passo indietro: «Mi hanno proposto di aprirmi una partita Iva – racconta – avevano bisogno di pagare meno tasse».

Ma la proposta, in realtà è un diktat: non c’è nessuna alternativa, nessun contratto di tipo diverso all’orizzonte. E, ovviamente, a Samantha non conviene. Ne parla con un consulente del lavoro che è dubbioso. Per non rimetterci in tasse deve dichiarare meno di quanto guadagni realmente, sotto i 7500 euro annui, infatti per i lavoratori dello sport c’è l’esenzione dall’Irpef. Lo Stato guadagna un evasore di necessità con la complicità dell’ennesima azienda che punta solo a pagare meno.

Matteo adesso fa il fotografo. Lui è uno di quelli che la partita Iva l’ha aperta per scelta. Lavora in proprio o con altri colleghi, “fa i matrimoni” i battesimi e affini. Solo un pugno di mesi prima, lavorava per una società che assembla e vende pc. In nero. Oltre 60 ore settimanali per circa 900 euro mensili. E richieste di una forma di contratto che non arrivava mai. Fino al giorno in cui il direttore lo convoca e gli illustra la proposta: «In nero non vi possiamo tenere (sottinteso: ci piacerebbe tanto ma il rischio inizia a diventare alto), apriti una bella partita Iva e non se ne parla più». Un contratto? «No – gli ha risposto il capo – lo Stato deve capire che io più del 10% in tasse non pago. Fino a che non si adegua niente contratti». E lo stipendio? Lo stesso di prima, la partita Iva è un modo per risparmiare mica per premiare il lavoratore.

Partita Iva anche per i raccoglitori di pomodori di Castel Volturno, nel napoletano. Un lavoro che gli italiani non fanno e che fanno i nigeriani. Per tradizione, un lavoro in nero. Oggi per i “caporali” c’è un’alternativa a costo zero: gli extracomunitari si aprono partita Iva per poter lavorare. Dipendenti indipendenti senza assicurazione né malattie. Con un contratto vero risolverebbero il problema del permesso di soggiorno. Con la partita Iva, invece, ne ottengono uno provvisorio di sei mesi. Da rinnovare ogni volta esibendo i pagamenti in regola. Guadagnano 400 euro al mese e il 20% se ne vanno in tasse e i “caporali” sono tutelati. Lo chiamano mercato del lavoro, se lo è, quella delle partite Iva è la bancarella degli ambulanti.