Dopo Rosarno il più totale disinteresse

di Marco Benedetto
Pubblicato il 9 Gennaio 2010 - 18:52| Aggiornato il 21 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Mi sento già di dire come finirà la storia di Rosarno: i giornali non ne parleranno più, l’attenzione di tutti sarà presa da altre più urgenti notizie, i neri torneranno a lavorare nei campi della Calabria, magari non quegli stessi, magari carne fresca, tanto di barconi ne arrivano sempre. Non voglio entrare nell’analisi di quel che è successo.

Lo ha già fatto su Blitz benissimo Lucio Fero, anticipando che questo è solo l’inizio: il ricordo delle rivolte dei ghetti neri americani, negli anni ’60, ci dice che gli scoppi di violenza fanno parte del processo di crescita della tolleranza razziale o quanto meno della convivenza.

Quel che ci deve preoccupare più di tutto è invece quel che accadrà nell’immediato futuro: il totale disinteresse della imbarazzantemente modesta classe politica italiana, che non sarà certo aiutata dall’onda lunga della crisi, ma che non sarà aiutata neppure dalla sua inadeguatezza. Vero è che in politica ogni mezzo è buono, trasformismo, camaleontismo, cinismo sono tutti termini intrinsechi alla politica: però la superficialità, la leggerezza, l’approssimazione non valgono neppure nel più basso gioco.

Vediamo le dichiarazioni dei politici di questi giorni. Dalla destra, ministro dell’Interno per primo, abbiamo sentito cose che noi avremmo detto a proposito delle fucilate al pullman dei giocatori del Togo. Cioè come se chi parlava non avesse il potere, anzi il dovere, di fare applicare le leggi ora invocate.

Dalla opposizione sono venute parole altrettanto incredibili, tenuto conto che negli ultimi dieci anni ci sono stati anche loro al governo, anche Prodi che oggi condanna, e anche con la legge Bossi-Fini, cui oggi danno tutte le colpe, trascurando il fatto che avrebbero potuto benissimo cambiarla, se ne avessero avuto la volontà e la capacità e trascurando anche il fatto che quella legge ha comunque consentito la regolarizzazione di centinaia di migliaia di stranieri, dando loro un quadro di certezze e anche una prospettiva di inserimento.

In un paese dove il mercato del lavoro è molto rigido, tanto rigido che chi c’è dentro c’è e che ne è fuori, vedi i giovani, non riesce a entrarci, gli immigrati, dall’est europeo, dall’America latina, dall’Africa e dall’Oriente, sono il vero cuscinetto di flessibilità.

Finché abbiamo vissuto un lungo periodo di crescita strutturale, che pur con alti e bassi ci ha visti tutti, pur con differenze anche importanti, notevolmente più ricchi. Il problema della flessibilità si è così risolto, temporaneamente, da solo, con le varie forme di precariato a fronte di un mercato del lavoro in continua espansione.

Ma alla base della piramide restavano i lavori che gli italiani non volevano più fare, dopo anni di promesse di una collocazione migliore cui si erano più o meno preparati con lo studio. E qui sono arrivati gli stranieri, dall’est europeo quelli a più elevata (e spesso superiore) educazione, dal resto del mondo la bassa forza.

La presenza di questi milioni di persone dimostra che in Italia il lavoro c’è, basta che ci sia qualcuno disposto a farlo. Ma questo vale fino a un certo punto. Nei momenti di crisi, anche gli italiani tornano disponibili, ma qui si scontrano con gli stranieri, a loro volta disposti a qualsiasi condizione di lavoro e di paga.

E qui nasce il conflitto, mentre i padroni, sia per massimizzare i profitti sia semplicemente per mantenere remunerativa l’attività, usufruiscono senza misericordia dell’afflusso di clandestini, che danno le migliori garanzie di obbedienza. Quando il governo, quello attuale e quello di prima, scopre che viene tollerata in modo eccessivo l’illegalità, fa una scoperta tardiva e anche incompleta, perché nessuno dice che quella tolleranza è stata praticata proprio dallo Stato italiano, del quale il governo è alla guida, attraverso il cattivo funzionamento dei suoi organi periferici.

E farebbero meglio a chiedersi se quella tolleranza sia solo frutto della carità cristiana che tutti ci guida, o non sia invece frutto anche di complicità. Dopodiché, invece di pontificare, di sparare qualsiasi sciocchezza pur di avere una citazione non dico su un giornale o una tv ma su un’agenzia di stampa, quei personaggi, che intanto di viaggi all’estero a spese dell’erario ne fanno comunque, dovrebbero fare un giro dell’Europa più progredita di noi, in quei paesi come Germania e Gran Bretagna, meno la Francia, che hanno un numero di abitanti simile al nostro e sono passati decenni prima di noi attraverso analoghi problemi rispetto all’immigrazione straniera.

I tedeschi hanno avuto turchi e italiani fin dagli anni ’60, gli inglesi hanno assorbito masse di indiani espulsi dall’Uganda e hanno fronteggiato il disinteresse della loro classe operaia verso lavori non graditi (infermiere ad esempio) quando ancora qui da noi si diceva che la tv a colori era un peccato mortale (non la Chiesa, peraltro, ma il laico La Malfa).

Il problema, tedeschi e inglesi, non lo hanno risolto con le dichiarazioni alle agenzie o le frasi tipo “ma vada a lavorare, è una ragazza giovane e carina, si dia da fare”, dette in tv perché nei bar sport brianzoli dicessero “che bravo”. Lo hanno risolto con leggi equilibrate, accettando l’immigrazione come un contributo allo sviluppo, con una programmazione delle accoglienze, in una parola con una politica: non quella del transatlantico, quella della gestione della cosa pubblica.