Da Francesco De Sanctis alla sindacalista Valeria Fedeli, il degrado della scuola, già avviato prima del ’68, è negli stipendi degli insegnanti. Ci fu un tempo in cui i professori di liceo erano pagati più dei magistrati. L’effetto di tutto ciò è nella denuncia dei 600 docenti, che all’università si fanno errori da terza elementare (pubblicato anche su Un Sogno italiano).
Non ho partecipato al coro di quanti si sono schierati sui social network e sulla stampa per stigmatizzare la scelta di Valeria Fedeli a ministro dell’istruzione senza laurea, ma con una lunga esperienza di sindacalista. E questo la dice lunga su come il Governo Gentiloni intenda il ruolo di quel Ministero, un’amministrazione di gestione del personale e quindi di un potenziale bacino elettorale, come, infatti, è stato fin qui per la Sinistra in una scuola nella quale i docenti delle scuole di ogni ordine e grado sono sottopagati e per questo covano un giusto risentimento per la loro condizione di pubblici dipendenti trascurati da uno Stato che pure assegna loro il ruolo essenziale di formazione dei futuri cittadini e professionisti.
Resta e si aggrava il malcontento, ma la Sinistra perde consensi dopo che uno dei tanti slogan di Matteo Renzi, la “buona scuola” si è rivelato, come altri, privo di contenuti, l’ennesima presa in giro.
A questo punto mette conto ricordare un episodio del liceo quanto il nostro professore di storia e filosofia ci disse che anni prima, giovane laureato in giurisprudenza, aveva vinto, quasi in contemporanea, due concorsi, per professore ordinario nei licei e per magistrato. Ed aveva optato per l’insegnamento perché, all’epoca, i docenti di liceo avevano uno stipendio superiore a quello dei magistrati. Basta questo per dire quale considerazione la classe politica italiana abbia oggi per l’insegnamento e il ruolo fondamentale della scuola nello sviluppo economico sociale, a fronte di altri paesi dell’Unione europea nei quali lo stato investe nella scuola e nella cultura, dopo aver prima investito nella natalità, considerata giustamente un investimento per il futuro.
Docenti meglio pagati, dunque, e più accuratamente selezionati perché va affermato il principio che i pubblici dipendenti in genere, come i docenti, vanno scelti fra i migliori professionisti nelle varie discipline. Ad essi va assicurato anche un adeguato aggiornamento, fatto di buone letture e di occasioni di stage in altri paesi dell’Unione, in modo da sperimentare altre tecniche didattiche con le quali confrontarsi.
Ma non è tutto qui, ovviamente. Migliori docenti, meglio pagati ma anche programmi adeguati perché la scuola deve formare ai livelli più elevati. Non un diplomificio in cui prevalga la regola del 6 o del 18 “politico”, come si diceva nel ’68, quando è iniziato o si è sviluppato il degrado che oggi constatiamo. Un tempo il conseguimento del titolo di studio attestava una effettiva preparazione professionale. In sostanza chi si fosse presentato per ottenere un posto di lavoro da geometra, ragioniere, ingegnere, giurista o economista si presumeva avesse la necessaria preparazione per affrontare un impegno di lavoro. Oggi quel livello è molto basso e spesso non dà certezza, a chi ha esigenza di assumere, che colui che offre la sua prestazione sia effettivamente in grado di essere impiegato con il livello del titolo di studio esibito.
È un grosso problema, perché, da un lato, chi riceve dallo Stato un diploma legittimamente pretende un posto di lavoro adeguato, dall’altro, la difficoltà di inserirsi in un ufficio pubblico o in una azienda privata ne fa un frustrato, un ribelle nei confronti della società. Certo la mancanza di lavoro non è solamente colpa della scuola che non forma come un tempo. La difficoltà della crescita e dell’economia sono dovute ad altro, a scelte politiche inadeguate, alla mancanza di prospettive di sviluppo e di occupazione, ma è certo che il livello basso degli studi non facilita l’inserimento nel mondo del lavoro. E se il giovane volonteroso va all’estero è molto probabile che ottenga una occupazione di livello inferiore a quello corrispondente al suo titolo di studio.
Quel che è certo è che in materia di istruzione non si rimedia da un anno all’altro una situazione di degrado come quella alla quale assistiamo e che è dimostrata in modo impietoso, tra l’altro, dalla scarsa conoscenza della lingua italiana, dalla banalizzazione diffusa e programmata delle regole dello scrivere, come dalla demonizzazione del congiuntivo che è espressione di un modo di parlare e di scrivere elegante ma anche efficace che è fondamentale per ogni professione. Ricordo che a mia figlia fu assegnato il compito di sostituire il congiuntivo in un brano “perché non si usa più”! Scrivere bene in italiano non è soltanto dei letterati. Anche la relazione di un ingegnere o di un medico, anche una sentenza può e deve essere scritta in un buon italiano per essere strumento efficace di conoscenza di fatti e di regole. Stavo concludendo queste mie considerazioni quando è stato diffuso dai giornali e dalle televisioni un appello, firmato da oltre 600 studiosi, i quali denunciano che sono moltissimi gli studenti universitari che non conoscono l’italiano. Di più, che fanno errori non tollerabili neppure in terza elementare. Anche la mia esperienza lo conferma. Ho dovuto correggere relazioni e tesi di laurea ricorrendo a tutta la possibile cortesia per suggerire, per non offendere il mio interlocutore, la modifica di una frase, senza segnalare apertamente che erano state violate le regole più elementari della grammatica e della sintassi.
Purtroppo recuperare anni di affievolimento dell’impegno scolastico, che si trascina, nel corso di alcuni decenni, dalle scuole elementari all’università, non è facile. Sarebbe necessario che la classe politica, la quale rivela scarsa sensibilità in tema di istruzione, se si esclude l’interesse per le carriere dei docenti, una classe politica la cui povertà di linguaggio si nota nei comizi negli atti del Parlamento e del governo, s’impegnasse con uno sforzo economico e prima di tutto culturale per voltare pagina, per immaginare un percorso nuovo che recuperi il meglio della nostra cultura collegandola con le novità effettivamente importanti per mettere i nostri giovani in condizione di competere sul mercato del lavoro interno e internazionale.
In questo quadro servirebbe un ministro che non si occupasse esclusivamente della carriera dei docenti, che pure è un elemento essenziale insieme al loro trattamento economico, ma immaginasse qualcosa di più e di diverso, perché l’Italia si forma e si fonda sulla sua cultura, sulla sua storia su quel patrimonio prezioso che all’estero è ovunque apprezzato, aggiornato come è necessario per preparare le nuove generazioni. L’Italia che ha avuto come ministri dell’istruzione Francesco De Sanctis e Giovanni Gentile deve ritrovare il percorso giusto per il tempo attuale. Rapidamente perché il degrado è già notevole.