Dai “senza palle” alla “scorreggia”: tutte le epurazioni di Bossi

Pubblicato il 6 Ottobre 2011 - 09:14 OLTRE 6 MESI FA

Umberto Bossi (Foto LaPresse)

ROMA –  Achille Tramarin, Graziano Girardi, Franco Castellazzi e tanti altri. È una storia lunga, quella delle epurazioni di Umberto Bossi e della Lega. Ce la ricorda Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera. Furono in molti nel 1989 a fondare la Lega Nord ma a poco a poco rimasero in pochi dei fondatori originali, tutti gli altri furono espulsi.

Espulso Achille Tramarin, il primo parlamentare a parlare in dialetto alla Camera. Espulso Graziano Girardi, che vendeva mutande nei mercati ed era finito per primo a Palazzo Madama. Espulso Franco Castellazzi, padrone di una discoteca con striptease maschili, presidente del movimento e primo capogruppo leghista alla Regione Lombardia: “Bossi diceva che me la facevo con Craxi, la Cia e il Kgb”.

Poi espulsi, tra i fondatori, il ligure Bruno Ravera e gli emiliani Giorgio Conca e Carla Uccelli, il toscano Riccardo Fragassi e il piemontese Roberto Gremmo. Espulsi anche il fondatore della Liga Veneta Franco Rocchetta e la moglie Marilena Marin, colpevoli di contestare la guerriglia bossiana contro il primo governo di Berlusconi: “Traditori! Cospiravano per fare il partito unico berlusconiano”. E ancora espulsi tutti i parlamentari contrari alla decisione del Senatur di abbattere l’esecutivo Berlusconi. A partire da Luigi Negri, fratello della moglie di Calderoli, Sabina. Tra le vittime dell’epurazione, oltre alla moglie di Luigi Negri, Elena Gazzola, allora presidente leghista del Consiglio comunale milanese.

Fuori anche il primo ministro leghista al Bilancio, Mimmo Pagliarini. Fuori il primo ministro all’Industria, Vito Gnutti, bollato da Bossi come “il nano della Val Sabbia”. Fuori il fedele autista Pino Babbini: “L’Umberto mi accusò d’avergli rubato una macchina fotografica, ma anche che gli insidiavo la moglie. Tutte balle. Qualcuno nella Lega non voleva che gli dicessi quello che non andava”. Fuori, prima di una successiva riconciliazione, l’ideologo Gianfranco Miglio, liquidato dal Senatur come “una scorreggia nello spazio”.

E poi fuori Elisabetta Bertotti che aveva osato dire che alle comunali di Trento il candidato leghista era così razzista che avrebbe votato il candidato dell’Ulivo. Fuori il primo capogruppo Luigi Petrini. Fuori il segretario della Liga veneta Fabrizio Comencini. E fuori Irene Pivetti, la prima presidente leghista di Montecitorio, che per aver ricordato come la secessione non fosse nello statuto né fosse stata “decisa da alcun congresso” fu espulsa e insultata.

Tutti fuori insomma, e ci andò vicino anche Roberto Maroni che nel 1994 osò ribellarsi alla decisione di buttare giù il governo Berlusconi: “Può uno come me assistere allo squagliamento del partito perché il suo leader ha sbagliato tutto?”. Finì con uno striscione che diceva: “La Lega ce l’ha duro e i Maroni ce li ha sotto”. Dovendo quindi scegliere Maroni scelse Bossi: “Lui ha sempre ragione”. Cosa che gli tirò addosso le ironie di Irene Pivetti: “Pare un rieducato di Pol Pot”.