Tangenti, spesa, Ritangentopoli? La “Profezia del coperchio”

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 16 Febbraio 2010 - 16:13| Aggiornato il 21 Ottobre 2010 OLTRE 6 MESI FA

La primogenitura della riflessione e del preoccupato sospetto spetta a Paolo Mieli. Era ospite in tv da Santoro e, mentre il “salotto-dibattito” giocava a ping-pong verbale su elezioni regionali, informazione più o meno libera in Rai e polemiche e angosce varie, Mieli ha detto pacato: “C’è un clima, ho la sensazione che il coperchio stia saltando”. Tranne Lucia Annunziata, nessuno in studio ha raccolto, sentito, compreso davvero. Mieli è da sempre persona curiosa e informata. A lungo e a più riprese direttore del Corriere della Sera, il pubblico televisivo lo conosce nella sua veste di storico-divulgatore. Per cultura, abitudine, gusto e professione, Mieli ha sempre avuto dei “sensori” accesi e sensibili, capaci di reagire a quel che avviene ma soprattutto a ciò che “si dice” possa avvenire. Mieli resta uno dei pochi che avverte, sia per istinto che per la sua vasta rete di “relazioni sociali”, ciò che la cosiddetta “gente” cova e ciò che il cosiddetto “Palazzo” nelle sue diverse stanze reciprocamente si sussurra. Se dice che “il coperchio sta per saltare”, va preso molto sul serio, vuol dire che qualcosa ha saputo e Mieli è persona che sa mettere in colonna e trarre la somma coerente dei vari e diversi “qualcosa”.

Se la primogenitura è di Mieli, il copyright ce lo prendiamo noi, battezzando come “La profezia del coperchio” quella che gira e ci si scambia nelle telefonate e nelle conversazioni tra “color che sanno”, nei giornali, nei partiti, nelle aziende. Insomma al vertice della cosiddetta classe dirigente. Una versione della “profezia del coperchio” è arrivata, più o meno, anche al grande pubblico. Versione minima, semplificata e ridotta, anche se la parola con cui la si può riassumere è tonda, robusta, evocativa: “Ritangentopoli”. Anzi Ritangentopoli? Con il punto interrogativo perché qualcuno pensa che proprio di questo si tratti: di una situazione analoga a quella che diciotto anni fa, nel 1992, diede vita alle inchieste che cambiarono i connotati della geografia politica, molto meno, con il senno di poi, quelli della società civile.

A suffragio e sostegno di questa tesi ci sono i dati della Corte dei Conti: i reati di concussione e corruzione, i reati da “tangente” aumentati in numero assoluto e in percentuale sul totale dei reati registrati. Più del doppio in cifre assolute, quasi il quattro per cento in percentuale sul totale. E ci sono le otto inchieste della magistratura su tredici Regioni che vanno al voto. Sei riguardano uomini o amministrazioni del centro sinistra, a definitiva e clamorosa smentita che si tratta di una offensiva giudiziaria anti Berlusconi ed amici. E c’è lo stillicidio di assessori e amministratori soprattutto lombardi presi letteralmente con la tangente in bocca: Prosperini, Pennisi, Masoero… E i quattro, la banda dei quattro della Protezione Civile

Letizia Moratti e soprattutto Silvio Berlusconi hanno sentito, pesato e valutato e hanno detto: “Non è Tangentopoli, sono casi isolati, cani sciolti”. Il premier ha aggiunto: “Impedite che si formi e consolidi questa falsa opinione”. Il presidente della Camera Fini con altre parole ha anche lui negato che “Ritangentopoli” sia: “Questi rubano per loro e non per il partito, sono solo ladri”. Non che sia meno grave per Fini ma è diverso da quando, alla prima Tangentopoli, era l’intero sistema politico ad essere “consustanziale” al sistema della tangente. Allora l’uno senza l’altro non potevano vivere, fu in fondo questo il senso del discorso di Craxi alla Camera quando disse: “Chi può negarlo lo faccia, la realtà e la storia si incaricheranno di smentirlo”. Nessuno lo fece, nessuno lo negò.

Allora, se non è “Ritangentopoli”, se non è questo il “coperchio” che sta saltando, cosa è che giustamente si avverte, cosa sta bollendo sotto il coperchio? Per capirlo bisogna disfarsi di alcuni consolidati luoghi comuni intorno alla genesi e natura della Tangentopoli prima. Si è detto e scritto che fu conseguenza della caduta del Muro di Berlino. Finiva la guerra fredda e in Italia, un’Italia che non era più prima linea di quel fronte, non c’era più bisogno e interesse a coprire e pagare i costi “accessori” di un ceto politico vorace. Spiegazione troppo complessa per essere vera, verità più ricostruita a tavolino che trovata nelle cose. Si è detto, si dice e si grida ancora che fu scientifica demolizione di quello che allora era il pentapartito da parte dei magistrati di sinistra. Per sostenerlo bisogna omettere che “motori” di Tangentopoli furono la Lega di Bossi, An di Fini, l’opinione pubblica di destra. Non ci fu complotto e azione organizzata. Casomai ci fu rincorsa da parte della magistratura nei confronti della pubblica opinione, di destra e di sinistra. Rincorsa e anche, questo sì, voglia e piacere di guidare e salire in groppa.

Tangentopoli venne non indotta dalla politica estera e neanche dalla sinistra italiana. Tangentopoli venne per la caduta, anzi l’esaurirsi della “utilità marginale della tangente”. Fino a che si pagava per costruire il cavalcavia, si pagava in serenità. Ci guadagnavano i partiti con la tangente, ma anche la società civile nella forma di costruttori, aziende, cantieri, occupazione, consumi ci guadagnava. E infatti taceva perché il flusso di denaro portato, movimentato da Tangentopoli bagnava studi professionali, ristoranti, taxi, negozi e, sia pure indirettamente, buste paga. Poi, a un certo punto, il cavalcavia non si riuscì più a costruirlo. Nonostante la tangente pagata, nonostante l’entità crescente della tangente richiesta. E allora qualcuno di quelli che pagavano senza ottenere ritorno andò da qualche giudice. E venne, iniziò Tangentopoli: questione economica e molto poco morale, per nulla eversiva e per niente globale. Fu un “sistema italiano” che a un certo punto cominciò a spendere più ricchezza di quanta ne produceva.

Ed è questo, di questo tipo, economico e non morale, politico o giudiziario, il coperchio che sta di nuovo saltando. Lo si vede quando si guarda a cosa fanno le Regioni prima di andare al voto: spendono. La spesa delle Regioni è un quarto della spesa pubblica totale ma l’incremento di spesa delle Regioni è del 50 per cento superiore all’incremento di spesa di ogni altro pezzo di Stato. L’unica spesa a cui Tremonti ha detto sì negli ultimi mesi è quella per la spesa sanitaria gestita dalle Regioni: da 103 a 108 miliardi annui. La “Casta del Territorio” che qua è là ruba, soprattutto spende. Perché se non spende, se non “integra il reddito” di milioni di famiglie con gli 80 miliardi annui di “spesa discrezionale”, cioè non scuola, sanità, stipendi, il tessuto e la pace sociale si logorano e stracciano. Tessuto e pace sociale di cui il consenso elettorale sono solo l’epidermide. La gente chiede spesa e la politica trasformata in ufficiale pagatore gliela dà. Altra politica non c’è, lo stesso federalismo è la promessa che ciascuna Regione, una volta da sola, potrà spendere di più per se stessa. Che quote e fette della spesa restano attaccate alle mani di chi la distribuisce, che insomma qualcuno rubi facendo il postino del denaro pubblico dal “Palazzo” alla “gente” è in fondo una sorta di statistica ovvietà.

Ma presto, molto presto la politica tutta avrà meno da spendere. Tutti i governi e i paesi del mondo occidentale devono “rientrare” da insostenibile eccesso di spesa. in Italia vuol dire smontare il sistema sociale che c’è, prima ancora di quello politico. È questo il coperchio che sta saltando. L’altra volta Tangentopoli produsse alla fine, anche se questo non era certo il suo fine, la trasformazione della politica in populismo. Dopo Tangentopoli e sulle sue ceneri venne Berlusconi. Era Berlusconi che bolliva sotto quel coperchio che saltava, quando salterà quello della spesa chissà chi e cosa spunterà fuori.