Vendola a Bersani: “O io o Monti”. Ma il “muro” di Berlino (Pd-Prof) resiste

Pubblicato il 6 Febbraio 2013 - 12:02| Aggiornato il 4 Giugno 2022 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Vendola minaccia Bersani: “O io o Monti”) ma il “muro” di Berlino (prove tecniche di alleanza Pd-Prof) sembra attutire la crepa. La prima vittima della riappacificazione è Vendola (“Monti e il centrosinistra sono inconciliabili, o noi o loro” pressappoco), ma Bersani che intendeva rassicurare Europa, mercati, cancellerie, si occuperà del suo fronte sinistro, dopo aver steso un cordone di sicurezza contro ingovernabilità e populismi. Dopo la tregua lanciata da Berlino, il segretario Pd si rituffa nella campagna elettorale italiana armato di estintore, per smorzare gli entusiasmi di Berlusconi (“Il sorpasso lo vedo con il binocolo”), per spegnere gli ultimi fuochi nella polemica con il Professore. Al quale ha dedicato, riciclandola a fin di bene, una delle sue battute: “Non si può ignorare la ventata di novità che c’è dietro al Pd. Dirla come Berlusconi, siete dei comunisti, mi è sembrata una cosa da Berlusconi con su il loden“.

Nel pomeriggio, poi, Bersani fa quello che deve fare, ovvero difendere l’alleanza con cui si presenta alle urne, quella sottoscritta prima delle primarie di coalizione con Nichi Vendola:  ”Il mio polo è il mio polo e che nessuno lo tocchi – le parole del leader del Centrosinistra – A partire da lì sono pronto a discutere”.

Una stilettata dolce, come a segnalare la fine della ricreazione elettorale, degli attacchi a testa bassa scambiati con un Monti improvvisatosi ariete e desideroso di marcare la differenza. Mancano solo tre settimane al voto, ma il pallottoliere dei seggi conferma l’incertezza sulla vittoria del centrosinistra anche al Senato. Col rischio della palude dell’ingovernabilità, spauracchio storico dei mercati, incubo manifesto di tutte le cancellerie d’Europa. Un problema in Italia, diventa il problema dell’Europa. Per questo, chi voglia oggi accreditarsi come fattore di affidabilità e di stabilità, non deve più sobbarcarsi un viaggio transoceanico a Washington, gli basta farsi un viaggetto a Berlino.

Del resto, almeno a parole, in realtà la novità politica del ritrovato feeling tra Bersani e Monti non sussiste. Il primo ha sempre detto che se avrà il 51% dei suffragi si comporterà come se avesse il 49%, intendendo che un dialogo con i centristi è nelle cose. Il secondo, tornando a parlare di “grande coalizione” dei riformisti, non persegue più il disegno di scomporre i poli: l’evidenza dei numeri (a oggi se la gioca con Grillo per il terzo posto) consiglia il recupero del rapporto con il Pd, magari depurato da Vendola. In campagna elettorale Mario Monti continuerà sul solco tracciato nelle ultime settimane, evitando però attacchi diretti alla persona del segretario. Il video spot ufficiale di Monti che dalle 13 del 6 febbraio inonderà gli spazi della tv, del web, dei social network contiene immagini rassicuranti del Prof chiamato a fare le cose che i vecchi partiti non sapevano fare: tutto nella norma, niente attacchi al partito “fondato nel ’21”.

A Berlino dal potente ministro delle Finanze Schauble, Bersani si è presentato come l’unico autorevole amico di Monti. Per rassicurare la Germania e l’Europa: non c’è spazio per il ritorno di Berlusconi (visto come l’uomo-spread nelle cancellerie), il populismo di Grillo è effimero, Pd e presidente del Consiglio costituiscono un argine sicuro contro pericolosi scivolamenti all’indietro. La novità, rappresentata dall’istantanea di un Bersani-Monti riconciliati, la si avverte solo nel perimetro di centrosinistra, dove Vendola mastica amaro.

Vendola, che dovrebbe competere con Ingroia e contro le sirene populiste a sinistra secondo il disegno bersaniano, si percepisce al contrario come la garanzia a sinistra che di altri Monti non se ne vedranno. “Spero che Bersani non si voglia assumere la responsabilità di rompere l’alleanza del centrosinistra” ha minacciato oggi, in un convegno al teatro Piccolo Eliseo a Roma. Non gli bastano i paletti su lavoro e tagli che Bersani gli ha assicurato, è facile per lui insistere sulle differenze incompatibili con chi, per esempio, sulle unioni civili e in generale sui diritti la pensa all’opposto di ciò che indica il programma di centrosinistra.

Tuttavia, una piattaforma socialista sul lavoro, sulla modulazione dei patti di bilancio al netto degli investimenti sulla crescita che abbia un respiro europeo, in grado di influenzare se non persuadere il rigore imposto da Berlino, non c’è. Il famoso coordinamento dei laburisti continentali è una chimera. Hollande, a questo proposito, non si discosta troppo da Merkel preferendo per l’Italia innanzitutto la continuità rappresentata da Monti. Quanto alla crisi e agli interventi per far crescere l’Europa tutta, Hollande (ne dà conto oggi il Wall Street Journal) punta tutto sul tema del tasso di cambio nella politica monetaria della Bce, che per Statuto si occupa solo di mantenere bassa l’inflazione. Hollande spinge perché, come gli altri  banchieri centrali, Draghi possa avere il potere di aumentare la massa di liquidità e riportare l’euro a un livello più consono alla situazione economica del continente (debole).

Il refrain è sempre lo stesso e Hollande lo declina nei termini di un paradosso: “Chiedere alle nazioni uno sforzo per la competitività e e allo stesso tempo rendere le loro esportazioni più care, in altre parole annichilite dal valore esagerato dell’euro”. Non sarà colpa di Monti, e neppure di Bersani, se al dunque, in occasione della chiusura del bilancio Ue cui partecipa il Professore, il compromesso tra rigoristi e fautori della crescita si risolverà in un compromesso al ribasso. Sul Sole 24 Ore del 5 febbraio, Enrico Brivio spiegava:

“Se l’Europa avrà la forza di dotarsi di un bilancio degno di far fronte alla crisi è tutt’altro discorso. Il presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, mette le mani avanti e assicura che ci saranno vari miliardi destinati alla lotta alla disoccupazione. Ma, tra i Paesi del Nord che vorranno tagliare il budget europeo e quelli del Sud che vorranno difendere coesione e spesa agricola, a rimetterci rischia di essere ancora una volta la spesa in reti, infrastrutture e innovazione. Ovvero la più utile per la crescita e per il futuro. E questa rischia di essere la vera cattiva notizia”.