Come nasce un ghetto: comincia con un affitto in nero…Come si smonta: con case pubbliche

Pubblicato il 17 Febbraio 2010 - 16:14 OLTRE 6 MESI FA

Milano, la polizia ferma un nordafricano in via Padova

Comincia da un affitto in nero, così si monta un ghetto.Stranieri che occupano, italiani che scappano. Non si conoscono ma si temono e dal degrado nascono i ghetti. Gli scheletri urbani a metà tra quartieri storici abbandonati a sé stessi e bidonville di cemento di nuova generazione sono disseminati nelle metropoli nostrane: via Padova a Milano, l’Esquilino a Roma, San Donnino a Bologna, San Salvario prima e Porta Palazzo adesso a Torino.

Le liti di condominio sulle ristrutturazioni da fare rendono gli stabili prigionieri del loro stesso decadimento, mentre le amministrazioni comunali non incentivano la manutenzione. Così chi ha soldi, fortuna e scarsa pazienza lascia quegli appartamenti per zone migliori e le case restano sfitte. Sono i nuovi arrivati ad occuparle, gli stranieri che fanno fatica a sbarcare il lunario e si accontentano di spazi angusti, talvolta senza riscaldamento. Sono disposti ad abitarci anche in sette, otto, dieci o persino più famiglie insieme. Prima un appartamento, poi quello a fianco e infine anche tutto il palazzo. Di italiani in molte strutture ne sono rimasti pochi: vendono a cinesi, magrebini, bengalesi o indiani quegli immobili, spesso del dopoguerra, che ora si trovano in condizioni pessime.

I proprietari nostrani non riescono ad accordarsi sui lavori di ristrutturazione da fare e gettano la spugna. Gli immigrati in cerca di alloggio sono sempre disposti a pagare in principio una pigione più alta del normale, in seguito tentano di acquistare e in molti casi ci riescono perché i costi sono stracciati. Ma la vera trasformazione comincia con gli affitti in nero, perché come spiega Armando Borghi, direttore del master immobiliare dell’università Bocconi di Milano «in Italia affittare rende il 3% del capitale investito e non conviene». Gli italiani vendono, gli stranieri comprano e quando gli acquirenti hanno gli occhi a mandorla e pagano in contanti, i proprietari non ci pensano due volte. La situazione di mercato incentiva questo meccanismo e i prezzi allora iniziano a scendere, dopo un primo momento di rialzo. I vecchi abitanti però non si sognano nemmeno di andare ad abitare in quel miscuglio di facce e odori diversi, anche se innocuo. Non comprerebbero più nemmeno a costi bassi, mentre i nuovi arrivati -spesso sottopagati e con lavori irregolari- hanno difficoltà a farsi concedere un mutuo.

Nel giro di pochi anni si creano i ghetti dove vivono solo immigrati, ogni strada del quartiere diventa simbolo di un’etnia, con kebab  e negozi di spezie ovunque. La criminalità si impossessa del degrado e della povertà, la gente ha paura, i Comuni non sono in grado di riqualificare quelle aree abbandonate o spesso le ignorano. Se a Londra o Bruxelles gli stranieri sono riusciti ad integrarsi con la popolazione locale, anche in Italia qualcuno spera in una ricetta ideale per “riaprire” le porte dei ghetti al mondo circostante: dai modelli europei si evince che una soluzione esiste, ma ci vogliono impegno, soldi e tempo.

Paola Briata, docente di Gestione dei progetti di sviluppo territoriale al Politecnico di Milano tira in ballo «lo sviluppo di una politica urbana che coniughi azioni sociali, di riqualificazione economica e delle strutture, ma che risolva problemi comuni» e «il sostegno alle fasce più deboli», come donne e bambini. La rinascita delle zone “buie” delle nostre città, dunque, passa per la volontà di unire attraverso interventi mirati e iniziative culturali che permettono alle diverse etnie di studiarsi e di conoscersi per poi riuscire anche a convivere in pace. La diversità allora può diventare incontro, come nel quartiere San Salvario di Torino, che da decadente è diventato simbolo del multietnico chic. Lì con una birra e un kebab insieme si è usciti dal ghetto. in concreto? Regioni e Comuni comprino appartamenti nella zona sotto pressione garantendo affitti e vendite a prezzo contenuto, locali e negozi etnici sì, ma calmierati nel numero, sostegno a chi è in difficoltà economica mirato non solo alle nuove etnie ma anche, su base egualitaria, agli italiani.Così si smonta un ghetto.