Lettere dagli Usa: l’Oscar snello e il Sanremo obeso

di Andrea Bini
Pubblicato il 5 Marzo 2012 - 15:25 OLTRE 6 MESI FA

Jean Dujardin, Oscar miglior attore per The Artist (Ap-Lapresse)

SAN FRANCISCO, CALIFORNIA – In questi giorni tutti parlano dei vincitori (e dei perdenti) agli ultimi premi Oscar, forse noi italiani anche con una puntina di invidia per il film francese vincitore (alla faccia della solidarietà europea). Quello che mi sorprende della serata degli Oscar, che è un poco il Sanremo americano nel senso di evento televisivo clou dell’anno (non l’unico, ma probabilmente il più atteso), non è tanto la perfezione organizzativa, la parata di stelle, ma la durata.

Si dà il caso che questa seratona dalle mille e una notte, nella quale ogni secondo di pubblicità costa così tanto che solo pochi grandi brand commerciali possono permettersela, duri solo 3 ore. In queste 3 ore vengono presentati tutti e 5 i candidati per ognuna delle 24 specialità, annunciati i vincitori, i quali faranno il loro bel discorsetto in cui di solito ringraziano una trentina di persone, incluso il truccatore (se sono donne).

Poi ci sono le canzoni, qualche balletto, i siparietti comici, la pubblicità, gli omaggi agli artisti scomparsi e qualche altra cosa che ora non mi sovviene. Tutto in 3 ore, non si sgarra, quindi tutti a casa (o a festeggiare). Da noi sono anni ormai che Sanremo ha tracimato come un blob fino ad occupare tutta la settimana televisiva, e l’ultima serata i vincitori vengono annunciati quando le galline cominciano a svegliarsi.

Da noi sono i programmi giornalistici di inchiesta e approfondimento politico a durare tre ore. Tre ore di dibattiti infuocati, e senza neanche la soddisfazione di arrivare al momento topico in cui si annuncia “and the winner is…” La vittoria è tipica della cultura americana, da noi il pareggio. La bulimia tipica delle trasmissioni italiane è dovuta secondo molti all’autoreferenzialità caratteristica della nostra televisione, che in mancanza di un riferimento al mondo reale tende a moltiplicarsi all’infinito come un gioco di specchi.

Ma ci sono ragioni legate a differenze produttive e economiche fra i due mondi televisivi che sarebbe troppo complicato spiegare. Non è che gli americani sono più buoni e bravi, se potessero allungare anche loro il brodo per incassare di più lo farebbero. Continuo a pensare che se questo non è possibile ci deve essere anche una ragione culturale, un gusto per la sintesi (che non significa necessariamente sobrietà), un rifiuto tipicamente anglossassone per le sbrodolate retoriche che sono invece così comuni da noi.

Del resto in occasione dei temi scolastici in Italia la domanda tipica a casa è ancora: “Quanto l’hai fatto lungo?” In America la prima cosa che mi hanno insegnato è che se puoi dire una cosa con meno parole, fallo: “Go to the point!”. E tre ore per gli Oscar bastano.

 

PS: questa volta mi ero ripromesso di fare l’anglosassone e scrivere un post più breve del solito, ovviamente non ci sono riuscito.