Otto anni per una “giusta” causa: art. 18, sì al dialogo ma niente veti

Pubblicato il 3 Febbraio 2012 - 10:29 OLTRE 6 MESI FA

Il ministro del Welfare Elsa Fornero

ROMA – Sulla riforma del mercato del lavoro il ministro Fornero ha definito i tempi, due o tre settimane al massimo. Forme e contenuti della riforma sono quelli sul tavolo da mesi, il nodo è la partecipazione dei sindacati: Monti ha dato pieno mandato al ministro perché prosegua con o senza di loro. L’articolo 18 e, più in generale il tema della flessibilità in uscita, lo scoglio. L’idea del governo, e di Confindustria, è nota: la norma va conservata solo per le interruzioni di lavoro discriminatorie (pregiudizi di sesso, razza, religione ecc…), in tutti gli altri casi scatterebbe l’indennizzo in denaro. Il ministro non ha escluso nemmeno il ritorno dell’arbitrato, così come era stato presentato, ma respinto per l’opposizione dei sindacati dal precedente governo.

Il ricorso al giudice per risolvere il contenzioso e decidere sul reintegro (articolo 18) verrebbe eliminato almeno per i primi tre anni di lavoro, con il contratto di apprendistato su cui la convergenza è più ampia; Confindustria vorrebbe andare oltre, con indennizzo per motivi economici per tutti in nuovi assunti. Il sindacato fa quadrato a difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: “protegge dalle discriminazioni”. Ma nel negoziato le parti sociali hanno ragionato su un intervento di manutenzione per apportare alcuni correttivi alla disciplina sui licenziamenti, con l’obiettivo di ridurre i margini di incertezza interpretativa e i tempi del contenzioso.

Tra le ipotesi allo studio, trasferire i licenziamenti individuali per motivi economici nell’alveo della legge 223 del 1991 (si applica alle imprese con oltre 15 dipendenti che intendano effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni) che prevede il coinvolgimento del sindacato (in assenza, scatta una penale) al posto del controllo giudiziale, con il pagamento dell’indennità di mobilità al lavoratore licenziato. Un’altra ipotesi è circoscrivere il campo di applicabilità della “giusta causa”, escludendo da subito i motivi economici oggettivi. Sempre in relazione alla giustizia del lavoro si pensa a una corsia preferenziale per abbatterne i tempi biblici con un richiamo alle procedure dell’articolo 700 del codice civile sui provvedimenti di urgenza, ma anche con sezioni ad hoc nei tribunali.

A tal proposito è illuminante una storia raccontata dal Corriere della Sera. Una donna viene sorpresa dalle telecamere a danneggiare in concorso con altri le strutture dell’azienda, viene licenziata ma riassunta per una sentenza in appello (momentanea capacità di intendere, raptus). L’azienda ricorre in appello ma a 8 anni di distanza una sentenza definitiva non è ancora arrivata e semmai arriverà nessuno, verosimilmente risarcirà gli stipendi nel frattempo erogati. Il caso ha interessato sia la giustizia penale che quella civile, stesse linee di difesa e accusa ma sentenze opposte: innocente per la giustizia civile, quasi colpevole (manca l’ultimo grado) per la penale. D’altra parte in un anno (l’ultimo disponibile è il 2006) sono state 8.651 le controversie per estinzione del rapporto di lavoro instaurate in primo grado: non sembra una cifra eclatante, comunque non così alta da giustificare l’impasse in entrambe le parti in causa.  (governo-sindacati).  Il 44,8% si è chiuso con il rigetto della domanda. A sentenza definitiva le istanze rigettate (richieste di licenziamento) aumentano sensibilmente. Le cause possono arrivare a durare fino a sei anni. Inoltre, la forte discrezionalità dei tribunali determina esiti differenti con, come abbiamo visto, una prevalenza di giudizi favorevoli al lavoratore. Al sud, per esempio, vince quasi sempre il lavoratore, un po’ come succedeva negli anni ’80, all’epoca dei cosiddetti “pretori d’assalto”. E’ un fatto che il diritto del lavoro è influenzato da ragioni territoriali, lo stesso istituto può essere discusso in modo assai difforme.

Al sud, la specificità del territorio e le difficoltà sociali impongono infine cautela nella gestione degli strumenti. “Normalmente, quando un’azienda vara un piano di riorganizzazione e dichiara un esubero di personale, ricorre al licenziamento collettivo – spiega Francesco Rotondi, avvocato giuslavorista e socio fondatore dello studio legale Lablaw  – In un’occasione, in cui l’azienda cliente, una realtà metalmeccanica di dimensioni nazionali, si preparava a licenziare, ho caldeggiato piuttosto l’adozione di cassa in deroga. Il territorio non avrebbe reagito bene, e con una situazione del genere, nel foro di Napoli, non avremmo mai avuto ragione in sede giudiziale, una volta impugnati i licenziamenti”.

Quindi, l’altro problema della riforma, sarà inevitabilmente una razionalizzazione dell’uso degli ammortizzatori sociali. Se l’obiettivo è introdurre una maggior fluidità nel passaggio da un impiego all’altro, non si può non sussidiare con mezzi dignitosi i lavoratori che hanno perso posto. Il Governo punta a razionalizzare l’attuale sistema degli ammortizzatori sociali per estendere il più possibile le tutele in caso di perdita del posto di lavoro.
La cassa integrazione ordinaria e la cassa straordinaria verrebbero confermate a patto che ritornino alla loro funzione originaria, vale a dire per sospensioni temporanee dei lavoratori per crisi congiunturali i riorganizzazioni aziendali. Ma senza abusi.

Nel 2010 l’Inps ha erogato prestazioni per integrazione al reddito di lavoratori per 21,5 miliardi: 1,5 per prepensionamenti, 11,8 per indennità di disoccupazione, 2,2 per l’indennità di mobilità, 3,9 per la Cigs e 1,8 per la Cigo. Il rafforzamento del sostegno al reddito per chi perde il posto di lavoro va allargato e finanziato con i contributi. Bisognerà poi introdurre maggiore contiguità tra contribuzione delle imprese e utilizzo effettivo degli ammortizzatori.