Corruzione, spesa pubblica, evasione: i partiti non amano la Corte dei conti

di Salvatore Sfrecola
Pubblicato il 3 Ottobre 2012 - 06:15 OLTRE 6 MESI FA

Salvatore Sfrecola ha ricordato, nel suo blog Un sogno italiano, i 150 anni della Corte dei conti, affrontando il tema nell’ottica di un magistrato in servizio attivo, presidente della sezione del Piemonte, quindi non solo come celebrazione di un secolo e mezzo di esistenza, ma anche sotto il profilo del ruolo della Corte nel presente e le possibili evoluzioni o trasformazioni (non proprio auspicate queste ultime) nel futuro.

Centocinquant’anni fa, in uno storico palazzo di Torino, Capitale del neo istituito Regno d’Italia, faceva ingresso il Ministro delle finanze Quintino Sella per inaugurare la Corte dei conti, “il primo Magistrato civile che estende la sua giurisdizione a tutto il Regno”. Aggiungendo di considerare “la creazione di questa Corte come una delle più provvide e sapienti deliberazioni che la Nazione debba al suo Parlamento”.

E, poi, rivolgendosi ai “Signori Magistrati di tutto il Regno d’Italia” sottolineava come altissime siano le attribuzioni che la legge loro affida. “La fortuna pubblica – spiega – è commessa alle vostre cure. Della ricchezza dello Stato, di questo nerbo capitale della forza e della potenza di un paese voi siete creati tutori”.

“Né ciò basta: ad altre nuovissime e nobilissime funzioni foste inoltre chiamati. È vostro compito il vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa contrario, è vostro debito il darne contezza al Parlamento. Delicatissimo ed arduo incarico, tanto che a taluno pareva pericolo l’affidarlo a Magistrati cui la legge accorda la massima guarentigia d’indipendenza, cioè la inamovibilità”.

Aggiunge il Ministro: “Questo timore non ebbi… perché ho fede illimitata così nel senno civile degli Italiani, come sopratutto in un regime di piena libertà e di completa pubblicità”.

Immaginate un governante dei nostri giorni, Monti escluso, che invita i magistrati della Corte a “vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge”!

È importante ricordare le parole di questo ministro propugnatore della politica “della lesina”, all’indomani dell’unificazione d’Italia, quando, come oggi, pesava sui conti pubblici un consistente debito.

È importante perché gli italiani devono sapere che, al di là dell’enfasi propria del linguaggio di un “patriota” risorgimentale, come Sella si definisce, c’è stata in alcuni momenti della storia d’Italia una classe politica che ha lavorato guardando agli interessi generali, che non ha lucrato sulle missioni, che non ha violato i risultati di un referendum popolare che cancellava il finanziamento pubblico dei partiti per attribuirsi il giorno dopo “rimborsi elettorali” estesi perfino a movimenti politici non più in vita.

È importante perché gli italiani devono sapere, come si legge sui libri di scuola, che ci sono stati in alcuni momenti della storia d’Italia politici che non si facevano comprare le case o pagare le vacanze.

Centocinquant’anni, dunque, di storia che s’intreccia con le trasformazioni costituzionali ed amministrative avvenute nel frattempo, che segue l’evoluzione dello Stato e la sua articolazione regionale, che accompagna la creazione delle amministrazioni autonome e delle aziende municipalizzate, degli enti pubblici e delle società a capitale pubblico dove si gestiscono risorse rilevanti, spesso eludendo controlli e responsabilità.

Perché non c’è stato più un Quintino Sella che abbia ritenuto di sollecitare i magistrati contabili a “vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge”, né un Parlamento di cui si possa dire che abbia adottato “provvide e sapienti deliberazioni” in materia di tutela della “fortuna pubblica”. Basti pensare alla normativa che delimita il “danno all’immagine” ad alcuni reati, rendendo impuniti gli autori di illeciti gravissimi che ledono agli occhi del cittadino l’immagine dello Stato, dal funzionario che attua una truffa aggravata al maestro pedofilo o violentatore, all’insegnante che tollera l’aggressione e la violenza nei confronti dell’alunno disabile, in aula, da parte dei compagni di scuola.

Centocinquant’anni tutto sommato portati bene, nonostante le difficoltà, l’insufficienza di uomini e mezzi per far fronte all’aggressione della corruzione e delle altre forme di illecito, dagli sprechi all’evasione fiscale di cui la cronaca ci informa quotidianamente.

Centocinquant’anni di una magistratura che, in realtà, è espressione di una evoluzione istituzionale che corre lungo i secoli. Perché, senza riandare all’ateniese tribunale dei Logisti, il cui ordinamento rivela in nuce i caratteri sostanziali dell’odierno processo contabile (la necessarietà del giudizio sul rendiconto circa l’uso dei fondi pubblici, l’autonomia funzionale del pubblico ministero, le garanzie processuali, l’autorità della cosa giudicata) o ad altre analoghe istituzioni poste a garanzia della corretta gestione dei fondi pubblici nell’evoluzione degli stati succeduti all’Impero romano, l’antenato più visibile è la Chambre des comptes francese, suprema magistratura finanziaria istituita nel secolo XIII da Luigi IX, che non soltanto giudicava i conti, ma esercitava anche un controllo preventivo mediante il diritto di rimostranza sui provvedimenti regi in materia demaniale.

Da quell’esperienza prende le mosse Camera dei conti, istituita nel 1351 a Chambery da Amedeo V, e quella di Torino, da Emanuele Filiberto. Magistrature, che esercitavano entrambe il loro controllo in forma giurisdizionale, ed alle quali era attribuito il “diritto di interinazione” per i provvedimenti normativi emanati dal princeps).

Per cui può dirsi che la nostra Corte celebra i 150 anni del suo inserimento nello Stato nazionale appena unificato che con la legge 14 agosto 1862, n. 800 assume una nuova connotazione rispetto a quella Corte che il conte di Cavour, che mai cessava di ripetere essere “ assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”, aveva voluto riordinare nel Regno di Sardegna solo nel 1859, così denominata rispetto alla preesistente Camera dei conti. Nel frattempo la legge sarda era stata estesa alla Lombardia mentre altrove erano rimasti in vita gli istituti esistenti: in Toscana la Granducale Corte dei conti, nel Regno delle due Sicilie la Gran Corte dei conti napoletana e quella siciliana.

Un giudice “dei conti”, dunque, che svolge una funzione fondamentale, che si basa sulla regola per la quale “l’obbligo di render altrui conto di una gestione, di un’amministrazione, la quale non sia stata condotta nel proprio esclusivo interesse, è regola d’ordine razionale, che non può, dunque, esser collocata in una o in un’altra epoca storica, ma che, nel secolare fluire delle vicende umane, sempre di vita propria, ammonitrice vive”, come ebbe a dire Ferdinando Carbone il Presidente del Centenario il 10 dicembre 1962.

Un reddere rationem cui si accompagnano varie forme di controllo per accertare la bontà e la regolarità dell’operato delle amministrazioni e degli enti, mettendo in evidenza ciò che si doveva fare nel rispetto della legalità, ma anche della efficienza, efficacia ed economicità di un atto o di una gestione.

Esigenza non formale, ma di interesse sociale. L’impegno pubblico per il bene comune, all’indomani dell’unità d’Italia come oggi, sconta il rilevante fardello del debito pubblico, che esige provvedimenti rigorosi con oneri che dovrebbero essere equamente distribuiti, ed un’organizzazione dello Stato efficiente, che produca servizi e non generi sprechi, che sia di ausilio allo sviluppo dell’economia e delle istituzioni di interesse sociale e non zavorra.

Nella Repubblica che si articola in una serie di centri di potere politico ed amministrativo titolari della funzione di spesa la Corte dei conti segue con grande impegno, anche se a volte con affanno per l’inadeguatezza degli strumenti normativi, degli uomini e dei mezzi, gestioni complesse destinate ad incidere in modo significativo su servizi di rilevante interesse sociale. Basti pensare alla sanità, rimessa alla competenza delle regioni, spesso fonte di scandali e comunque di sprechi, ancor più gravi perché compiuti ai danni di persone deboli, come sono, per definizione, coloro che accedono al servizio salute.

Nel tempo alcuni controlli, il controllo preventivo su tutti i decreti reali, poi presidenziali, sui decreti ministeriali di natura finanziaria, sui mandati e sugli ordini di pagamento, ed, in taluni casi, il controllo posteriore sulle spese, sono stati limitati. A cominciare dai decreti legge e dai decreti legislativi, per i quali il controllo preventivo di legittimità è venuto meno con la legge n. 400 del 1988, sul riordinamento della Presidenza del Consiglio, essendo stata ritenuta prevalente la natura normativa primaria rispetto alla formulazione amministrativa. Poi la legge 14 gennaio 1994, n. 20, ha limitato fortemente gli atti soggetti a controllo preventivo, individuando per questa procedura solo quelli di particolare rilievo, per dare ampio risalto al controllo successivo sulla gestione, anche, per le regioni, con riferimento alle leggi di indirizzo e di programma.

Oggi, proprio in questi giorni, quando la cronaca “ha rivelato come nel disprezzo per la legalità si moltiplichino malversazioni e fenomeni di corruzione” “inimmaginabili” e “vergognosi”, come li ha definiti il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, si dubita che l’assetto attuale dei controlli sia funzionale alla intercettazione dei più gravi fenomeni di mala gestione che trovano la loro origine in provvedimenti sui quali nessun controllo viene esercitato dall’organo che naturalmente quella funzione è chiamato a svolgere in posizione di assoluta neutralità.

A questo proposito istruttivo appare il richiamo ad una celebre, eppur trascurata, riflessione di Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei 75 che ha redatto la Costituzione il quale, richiesto di dare un significato alla funzione di ausiliarietà della Corte dei conti, la definì ausiliaria “della Repubblica”, espressione ben acconcia alla articolazione dello Stato dopo la riforma del Titolo V della Costituzione.

Non solo controllo, tuttavia, su atti e gestioni. Ma anche vigilanza sulla riscossione delle pubbliche entrate e sulle cauzioni degli agenti contabili, giudizio sul rendiconto dello Stato, cui accede la relazione alle Camere, giurisdizione contenziosa sui conti dei tesorieri e contabili pubblici.

Dal punto di vista istituzionale, il decorrere del tempo, il mutare dell’assetto costituzionale dello Stato, compresa la parentesi della dittatura, non hanno determinato mutazioni apprezzabili, essendo l’ordinamento della Corte rimasto indenne da riforme capaci di alterarne la originaria essenza di organo di garanzia che, anzi, è stato meglio precisato sul piano costituzionale dagli articoli 100, comma 2, e 103, comma 2.

La continuità, del resto, la forza propria delle grandi istituzioni dello Stato – coeve alla sua stessa nascita – e questa forza, appunto, che ne spiega e ne giustifica la lunga e mai interrotta esistenza.

Così è stato definito con la legge n. 259 del 1958 il controllo “sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria” tenuti ad operare secondo “criteri di economicità”, regola sulla quale la Corte molti criteri ha fornito. Ed è stato attuato un decentramento regionale che dal 1994 ha visto nei capoluoghi di regione sezioni di giurisdizionali e di controllo alle quali, con la legge n.131 del 2003 (c.d. “La Loggia”) è stata attribuita una significativa funzione consultiva, che va nella direzione di fornire assistenza giuridica “nelle materie di contabilità pubblica” a regioni ed enti locali che di altri ausili di consulenza “giuridico-amministrativo” non ne hanno. Funzione, pertanto, apprezzata e che rende palese agli occhi di amministratori e dipendenti di regioni ed enti locali il ruolo di organo “della Repubblica” di una Corte che, fino a qualche anno fa, poteva apparire Istituzione esclusivamente dello Stato centrale.

E qui va sottolineata l’importanza della funzione “referente”, in base alla quale la Corte riferisce “direttamente” alle Camere “sul risultato del riscontro eseguito”, in tal modo fornendo alle assemblee legislative, espressione della volontà popolare, gli strumenti conoscitivi necessari ad esercitare quel ruolo di controllo politico che deputati e senatori sono chiamati a svolgere in ragione del mandato elettorale (per cui bene della Corte si è detto che è longa manus del Parlamento). Ed oggi riferisce anche ai Consigli regionali che costituiscono centri di spesa e di incidenza politica di estremo rilievo.

Né va trascurato in questa stagione nella quale l’Europa è presente nella maggior parte dell’attività amministrativa, il controllo sull’attività di enti internazionali o sopranazionali che coinvolge la Corte dei conti italiana, in quanto quegli enti traggono i loro mezzi finanziari dalle contribuzioni poste a carico degli Stati aderenti per cui il risultato della loro azione si riverbera sui bilanci nazionali. Si tratta dell’Unione europea, del Consiglio di Europa, del Board della Nato e delle Agenzie internazionali. Contestualmente la Corte italiana è referente della Corte europea.

Accanto al controllo, la funzione giurisdizionale, con la sua tipica natura obbiettiva, agisce in connessione diretta con le funzioni istituzionali della Corte. Alla giurisdizione tipicamente propria della Corte dei conti che è e rimane quella nelle materie di conto e di responsabilità amministrativa e contabile, si aggiunge la giurisdizione relativa alla materia delle pensioni pubbliche che riguardano aspettative che la Corte ha sempre cercato di soddisfare ed oggi, pur nell’esiguità delle forze in campo, può dirsi quasi azzerato, grazie al decentramento della giurisdizione, l’arretrato ce caratterizzava i decenni scorsi.

La giurisdizione sui conti si atteggia, dunque, come logico complemento dell’attività di controllo, alla quale è legata da un intimo nesso, laddove la Costituzione, nell’affidare al legislatore ordinario la specificazione delle “altre” materie devolute alla giurisdizione della Corte, espressamente e direttamente, invece, ad essa attribuisce quella, appunto, relativa alle materie di “contabilità pubblica”. Espressione, quest’ultima, ben più vasta a quella di “contabilità di Stato”, a dimostrazione della evoluzione della finanza dello Stato in relazione alle nuove e crescenti funzioni di interesse sociale assunte come proprie dallo stato contemporaneo. In particolare assume rilievo per ciò che concerne gli enti pubblici beneficiari di contribuzioni statali e comunitari molto più del controllo, essendosi affermata la responsabilità degli amministratori che tali somme gestiscono.

Istituto di garanzia dell’Esecutivo (come detto “ausiliare”), di perfetto equilibrio e di assoluta equidistanza tra Governo e Parlamento, la Corte dei conti domina il dibattito politico e giornalistico che proprio in questi giorni richiama l’attenzione su corruzione e sprechi, un fenomeno gravissimo quanto diffuso sul quale, come abbiamo riferito, ha detto la sua parola ammonitrice il Capo dello Stato.

Per cui si sentono proposte per attribuire alla Corte altri e più significativi controlli sulla gestione delle spese della politica, proprio lì dove più grandi e ripetuti sono stati gli illeciti che hanno destato grave scandalo. Anche se rimane forte la resistenza della “casta” ad attribuire queste verificazione ad una magistratura dotata di indipendenza, quella preoccupazione che, come abbiamo visto, non aveva il Ministro delle finanze Quintino Sella all’atto della inaugurazione della nuova Corte dello stato unitario.

Per cui tornano ad affacciarsi tentativi di modificare la natura stessa della Corte mediante una rimodulazione della formazione professionale dei suoi magistrati. Per cui si è ironizzato, nel corso di una polemica interna recente sull’ingresso o meno di “magistrati economisti” che ha visto gran parte dei giudici contabili schierarsi per la preminenza della cultura giuridica.

Per vincere la sfida della qualità dei servizi e delle prestazioni occorre poi un forte impegno di rinnovamento della cultura della pubblica amministrazione. Una vera rivoluzione culturale. La cultura burocratica, la cultura del formalismo giuridico è radicata e resistente. Deve cedere il passo alla cultura della qualità, dei risultati, dell’innovazione, della sperimentazione”.

“Tra le difficoltà da superare per realizzare questo cambio di cultura ci sono le resistenze anzi la vera e propria impermeabilità spesso dimostrata dagli organi di controllo, che spesso rifiutano tout court di prendere atto che le leggi sono cambiate. Ricordo un episodio emblematico. Nella legge 127 del 1997 inserimmo una disposizione che imponeva di riservare il 20% dei posti nei concorsi per i magistrati della Corte dei Conti ai laureati in discipline diverse da quelle giuridiche. La ragione era ovvia: per sviluppare al meglio i nuovi compiti di controllo sulla gestione, sulla funzionalità, sui risultati delle amministrazioni pubbliche non bastano i giuristi: occorrono anche gli economisti, gli ingegneri gestionali, gli analisti di bilancio, che sono, del resto, il nerbo del General Accounting Office americano e dell’Audit Office britannico…. Che hanno fatto poi alla Corte dei Conti? Hanno risolto il problema sottoponendo i concorrenti provenienti da lauree non giuridiche ad un concorso basato prevalentemente su esami di diritto e li hanno bocciati tutti, lasciando vacanti i posti a loro riservati!”.

Naturalmente la posizione di Bassanini, che ha vari cultori all’interno della Corte, è legittima. Ma sarebbe una istituzione che non si potrebbe chiamare “Corte”, che vuol dire tribunale e non sarebbe ammissibile che i suoi componenti fossero definiti “magistrati”. Infatti dove queste istituzioni di controllo hanno una configurazione aziendalistica non si parla di magistrati. Ad esempio nella Contraloria General del Venezuela, ad esempio, i componenti si chiamano abocados..

Il Bassanini-pensiero, alla luce delle parole di Quintino Sella sull’indipendenza dei magistrati, che il Ministro del 1862 non temeva, fanno dubitare molto che i politici di oggi si preoccupino di quella garanzia della funzione e preferiscano un organismo meno indipendente nei fatti, anche se forse garantito dalle parole. Nel nostro ordinamento tante, forse troppe, sono le autorità “indipendenti”, ma basta andare ai criteri di nomina per rendersi conto che quella indipendenza è formale per uomini scelti dai partiti.