Annibaldi: “Proteggi gli occupati? Non cresci. Ma morire per l’art.18..”

Pubblicato il 27 Aprile 2012 - 23:06| Aggiornato il 28 Aprile 2012 OLTRE 6 MESI FA

L’errore, secondo Cesare Annibaldi, è stato fin dall’inizio quello di far girare tutto attorno all’articolo18 dello Statuto dei lavoratori, come se quello fosse l’unico problema.

Per Annibaldi, che è stato a capo delle relazioni industriali del Gruppo Fiat negli anni di piombo e nei momenti risolutivi che portarono alla marcia dei 40 mila, i termini sono altri.

“Soffriamo perché non c’è crescita e una delle condizioni della crescita è lo sviluppo dell’occupazione, e uno dei nodi è che non si può favorire nuova occupazione proteggendo chi occupato è già, perché le due cose non si sommano. Anzi, in una certa misura una spinge fuori l’altra, e qui si cade nell’altro problema che per garantire la vita a chi è spinto fuori ci vogliono tanti soldi e questi soldi lo Stato italiano non ce l’ha”.

Il disegno è complesso e anche quello del lavoro è solo un passaggio dei tanti che dovrebbero essere considerati tutti assieme, in una visione organica e complessiva che sembra mancare in Italia e non da ieri.

Certo, dice Annibaldi, “in questo quadro entra anche l’articolo 18, che è uno dei blocchi che tutela chi ha il posto, ma è un di cui, il discorso deve essere più ampio, ma questo non avviene, forse per mancanza di soldi, forse per mancanza di idee e di capacità, o forse un po’ di tutto”.

Cerchiamo un confronto con la Germania, confronto che Annibaldi ha sempre utilizzato come riferimento di molti ragionamenti, fin dagli anni ‘60.: “L’Italia soffre di un atteggiamento del sindacato di totale chiusura, ripiegato non solo sulla tutela dei suoi iscritti, ma anche nell’osservanza dei suoi schemi ideologici”.

Ma non si possono dare tutte le colpe al sindacato. Gli imprenditori a loro volta non sembrano effettivamente interessati a costruire un modello di partecipazione e responsabilità comune che è la forza dei tedeschi. Partecipazione vuole dire responsabilità, vuol dire limite alle proprie azioni, coerenza con i propri impegni: “Questo non piace ai sindacati ma non piace nemmeno alle imprese, cui a loro volta la mancanza di ogni partecipazione comune alle decisioni fuori dal tradizionale percorso conflittuale esasperato garantisce una libertà d’azione assoluta”.

Mettiamo le cose in fila. A cominciare con l’articolo 18 fu la Confindustria di Francesco D’Amato, che scelse la norma come test del post mortem della concertazione, ideologo quello Stefano Parisi direttore generale della Confindustria che sembra oggi in procinto di tornare.

Il sindacato, anzi la Cgil, reagì duramente, fino alla adunata di 3 milioni di persone a Roma nel 2002. Fu Sergio Cofferati a guidare la reazione e, per quanto Raffaele Bonanni della Cisl abbia sostenuto che qualcosa sarebbe successo anche senza Cofferati e senza l’articolo 18, a causa delle tensioni della sinistra, resta il fatto che a capo della Cgil nel 2002 c’era quello stesso Cofferati che la guidava quando il sindacato dovette subire le riforma delle pensioni del Governo Dini. Prima ancora il sindacato aveva dovuto accettare, dal 1985 in avanti, una serie di riforme, dalla scala mobile al costo del lavoro, che avevano provocato una forte crisi nel rapporto tra i lavoratori e le organizzazioni sindacali, con un drastico calo di iscrizioni e una conseguenze ristrutturazione, molto penosa, che aveva espulso migliaia di addetti al sindacato proprio durante la segreteria Cofferati.

“Non c’è dubbio che le possibili ripercussioni sul rapporto iscritti-sindacato causate dal forte valore simbolico dell’articolo 18 non sfuggirono a Cofferati, uomo d’organizzazione come pochi, ed è verosimile pensare che questo abbia provocato la sua reazione,” una specie di canto del cigno che precedette di poco la sua uscita dal vertice della Cgil.

Ma Annibaldi ricorda che già allora la maggior parte delle imprese italiane non mostrarono un particolare interesse per quella prova di forza. Anche allora sostenevano, Fiat in testa, che i problemi erano molti e altri. Non che l’articolo 18 non contasse, ma era un dettaglio.

“Tra l’altro”, è l’osservazione di oggi, ”che si tratti soprattutto di una questione di principio lo dimostra il fatto che le modifiche di cui si discute si applicano, nel caso dei licenziamenti economici, ad un massimo di cinque lavoratori eccedenti. Questo vuole dire che oltre quel limite, vale la vecchia legge sui licenziamenti collettivi, che già esiste da tempo, e che prevede che i primi a uscire siano i giovani e quelli con minori carichi di famiglia. Una legge giusta, che tutela le famiglie e i più anziani, ma che rende impossibile non solo aprire ai giovani ma anche tutelarli, a dispetto di tutta la retorica che ha avvolto il tema della disoccupazione giovanile e dei precari. Ma coperta è stretta e per favorire i giovani a scapito dei vecchi lo Stato dovrebbe essere in grado di farsene carico, cosa che, nell’attuale congiuntura, appare molto difficile”.

A ridare momento alla discussione sull’articolo 18, putroppo sono state alcune affermazioni di poco successive alla sua nomina a ministro di Elsa Fornero. Ora è sulle singole parole e virgole della sua formulazione che si è accesa una battaglia che sta facendo male a tutti: “Fa male ai rapporti tra industriali, Governo e sindacati, perché ogni cambiamento viene visto come un cedimento verso l’avversario. Fa male all’immagine internazionale dell’Italia, influendo sulle fluttuazioni dello spread, perché l’attenzione del mondo finanziario e politico europeo e non solo è tutta concentrata sull’evoluzione della partita”.