La “fuga dei (giovani) cervelli” italiani vista dalla rivista americana Time:qui non ci sono posti, un laureato su 25 lo trova, meglio la Cina o Dubai

Pubblicato il 9 Ottobre 2010 - 21:25 OLTRE 6 MESI FA

I “giovani cervelli” italiani cercano sempre più la propria fortuna all’estero. La rivista americana Time ha raccontato le storie di alcuni ragazzi (alcuni nemmeno troppo acerbi) che hanno deciso di fare le valigie per cercare di far fruttare altrove il proprio sapere.

Time spiega che i più validi tra i giovani italiani sono costretti a emigrare perché “sopraffatti” da un sistema strutturato in base al “nepotismo” e al “clientelismo”. Per questo, sottolinea la rivista, l’attuale flusso migratorio non può essere paragonato a quello dei secoli scorsi: allora gli italiani che partivano era perlopiù contadini e operai, oppure lavoratori non specializzati che fuggivano dalla fame e cercavano fortuna e quanto meno pane altrove. Adesso invece partono persone altamente specializzate, che troverebbero un lavoro “ovunque ma non in patria”. I dati Istat, in questo senso, sono impietosi: nel 2006 ha trovato un lavoro coerente con gli studi fatti solo un laureato ogni 25.

Ecco alcuni casi riportati sul Time.

Luca Vigliero è un architetto di 31 anni. Nel 2006 si è laureato presso l’Università di Genova, ma aveva difficoltà nel trovare un’occupazione. Allora ha deciso di trasferirsi a Rotterdam, dove ha lavorato per un anno presso il Rem Koolhaas’ Office for Metropolitan Architecture. In Olanda gli è arrivata una proposta di lavoro a Dubai, che Luca ha accettato al volo: nel Paese arabo poi l’architetto ha fatto rapidamente carriera e oggi coordina una squadra di 7 persone.

Federico Soldani è un epidemiologo di 37 anni. Laureatosi a Pisa, è dovuto arrivare fino a Washington per trovare un posto attinente al suo percorso di studi. Secondo lui il problema principale in Italia è quello dell’età: “Fino a 40 anni sei considerato giovane, e quindi inesperto”. Dunque, i datori di lavoro italiani privilegiano “l’età” rispetto alle “abilità” conseguite.

Simone Bartolini è un creativo di 29 anni, che adesso lavora a Sidney. Nel 2007 il nuovo capo dell’azienda per cui lavorava gli disse: “Ti metteremo i bastoni tra le ruote”. Questo diventò un incentivo per Simone che si trasferì in Australia, dove trovò condizioni lavorative nettamente più vantaggiose. Questa discrepanza era già stata segnalata da Filippo Scognamiglio, segretario dell’Italian MBA Association NOVA, l’associazione che cerca di riportare in Italia i cervelli “fuggiti” altrove: “La differenza di retribuzione, a parità di mansione, è elevatissima”.

Giovanni Chirichella, 34 anni, è un manager in risorse umane presso la GE Energy di Houston. Nonostante abbia trovato successo all’estero, non nasconde che il suo desiderio sia quello di tornare in Italia (è originario di Milano). E spiega che questo è un desiderio comune a molti “migranti” moderni.

Elena Ianni, 31 anni, è una manager in marketing. Lavora a Londra, alla Royal Bank of Scotland, ma vorrebbe cambiare impiego. Per questo ha messo un annuncio su Craigslist, e la sua speranza sarebbe quella di tornare in Italia. Ma finora le sono arrivare offerte solo dalla Gran Bretagna, mentre le aziende italiane sembrano ignorarla.

E c’è anche chi ha provato a tornare in Italia, ma ha dovuto constatare che “non era aria” e quindi ha preferito tornare all’estero. Silvia Sartori, 31 anni, ha lavorato per 4 anni in Asia. Ma la lontananza da casa era troppo forte, per cui ha deciso di tornare a Treviso. Ma dopo un anno non aveva trovato una sistemazione soddisfacente, per cui si è trasferita in Cina, grazie a una borsa di studio elargita dalla Commissione Europea.

Tutti i casi riportati confermano la tesi esposta in quello che è stato un po’ il punto di partenza dell’inchiesta di Time: lo sfogo del direttore generale della Luiss, Pier Luigi Celli: Celli scrisse una lettera, indirizzata al figlio e poi pubblicata da Repubblica, in descriveva l’Italia come un Paese “in cui un giovane non può vivere troppo a lungo”, perché non offre prospettive. Secondo il direttore generale della Luiss la colpa era da attribuire alla propria generazione, che aveva “fallito”, creando una società “divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili, di carriere feroci fatte su meriti inesistenti”.