Il Vaticano ridimensiona la Madonna, Papa Leone approva ma non firma, scontro millenario sulla divinità femminile - Blitzquotidiano.it (nella foto un ex voto al santuario della Madonna della Guardia)
Sette anni fa, la vigilia di Ferragosto, a Genova e non solo, piangevamo una delle più terribili tragedie dell’era moderna in una città metropolitana dell’Occidente sviluppato, prima del Covid, prima delle guerre che infestano oggi il pianeta.
Chi non ricorda dove era quel giorno, 14 agosto 2018 ore 11,36, quando il ponte Morandi di Genova crollò tra la pila otto e la pila nove per una lunghezza di 250 metri nelle due corsie, inghiottendo 43 vite di chi viaggiava in quella vigilia di Ferragosto sotto un temporale terribile nella valle Polcevera di Genova su quel capolavoro architettonico del 1967, costruito dall’ingegner Riccardo Morandi?
Tutti sanno dove erano perché tutti sono stati colpiti come una folgore da quella notizia che divenne subito “la notizia” principale in ogni angolo del mondo. Come era possibile che un ponte nuovo, perchè un ponte con soli cinquanta anni di vita praticamente è nuovo, si fosse spezzato come un grissino in mezzo a quell’autostrada A10, che è un nodo cruciale dei collegamenti nel Nord Italia, ma non solo.?
Genova 7 Ferragosti fa

Sette anni dopo la sciagura quella storia non è certo stata cancellata dalla memoria, ma esiste ancora con le sue conseguenze diverse non solo nel dolore incancellabile dei parenti dei morti, nelle famiglia colpite, nel destino della città di Genova che è cambiato da allora per tante ragioni e dura soprattutto perché il processo che deve fare giustizia della strage di innocenti è ancora in corso, lontano un anno dalla prima sentenza, prevista nell’estate del 2026, otto anni dopo, attesa dopo la richiesta delle pene che la Procura della Repubblica si appresta a chiedere in settembre per i 57 imputati.
Un processo difficile, di udienze che durano da quattro anni, dopo una istruttoria rapida e complicatissima, condotta con una grande perizia e fra immani difficoltà e che spesso l’opinione pubblica italiana ha dimenticato perché il mostro di questa giustizia lenta inghiotte spesso tutto, il dolore delle vittime, i danni subiti da una tragedia come quella, le responsabilità difficili da smascherare, le infinite schermaglie processuali, l’attenzione di una opinione pubblica che ha mille soverchianti sollecitazioni.
Oggi si traguarda la prima sentenza, mentre la prescrizione si è già mangiata alcuni reati come l’omissione di atti d’ufficio e il falso, caduti tra la fine del 2023 e il 2024. Non cadranno le accuse più gravi di omicidio colposo grave e plurimo stradale, che non si estingueranno prima del 2035, quando si presume che tutti e tre i gradi di giudizio saranno esauriti, ma è un po’ tutto il senso dell’accusa che si è attutito in questi sette anni.
Intanto il numero degli imputati, 57, le loro posizioni tra amministratori di Aspi, la concessionaria di Autostrade che gestiva allora anche A10, a incominciare dall’imputato numero uno, Giovanni Castellucci (l’amministratore delegato oggi già detenuto per un’ altra grave tragedia autostradale), funzionari pubblici, controllori autostradali, dirigenti , manager privati.
Figure e spesso accuse a loro riferite che si sono come diluite nelle more di quelle udienze distanziate necessariamente nei tempi, nei modi, nel ritmo nella procedura complessa, nelle articolazioni della difesa e della accusa, nel susseguirsi dei testimoni. poi degli imputati, nella tecno struttura costruita nel cortile del palazzo di giustizia dove il collegio giudicante ha pazientemente governato le sequenze di un processo tra i più impervi.
Una celebrazione in sordina
La settima celebrazione del 14 Agosto sotto il ponte, di fronte a un Memoriale che non è ancora stato terminato e che fino ad oggi la città non ha ancora vissuto perché i propositi iniziali di sono rallentati, allontanati, ha avuto sicuramente la commozione di sempre, con partecipanti nuovi, come la nova “sindaca” Silvia Salis, ma la sensazione è che come sempre il tempo riduca l’enorme portata di quella sciagura, il suo significato e soprattutto ridimensioni la spinta positiva che era partita dalla volontà dei genovesi di riscattare quella pagina, della quale non erano certo colpevoli ma solo vittime.
Il ponte crollò per inequivocabili colpe degli amministratori e dei responsabili della manutenzione e della sicurezza del tronco autostradale, il 14 agostto dopo tanti, speso martellanti segnali della sua fragilità, come ho cercato di raccontare nel libro “Cronaca di un crollo annunciato”, che pubblicai quasi subito dopo la sciagura.
Solo 18 mesi dopo un altro ponte, ricostruito smontando le macerie e i resti anche incombenti di quello spezzato dall’incuria umana, era già inaugurato per il genio di Renzo Piano, per la caparbietà del sindaco Marco Bucci, ma soprattutto per un sistema di deroghe che venne battezzato “il metodo di Genova”.
E che aveva potuto fare si che gli eccezionali finanziamenti dell’allora governo giallo rosso Conte&Salvini, concessi con una città unita che premeva trovassero procedure facilitate e decisioni ferree, governate da una squadra di superesperti che ogni settimana spingevano malgrado tutto, malgrado perfino il Covid durante il quale, in pieno lock down, i lavori non cessarono mai un’ora, neppure quando le squadre di operai venuti da Bergamo tornarono a casa perchè la pandemia stava falciando le loro famiglie.
Che fine ha fatto quel metodo Genova, riconosciuto non solo in tutta Italia, in tutto il mondo, che Bucci sfruttò in modo perfetto, mettendo insieme squadre competenze e volontà sintonizzate al bene comune?
All’indomani di quella ricostruzione, che fu applaudita ovunque, sembrava che il metodo potesse essere adottato a Genova per altre opere in costruzione e anche altrove, come esempio benefico e come svolta rispetto alle tradizionali lentezze, agli ingorghi, ai lacci e lacciuoli di sistemi burocratici e politici che hanno sempre avviluppato le decisioni e quindi le realizzazioni.
Non è stato così. Il metodo Genova, codificato perfino “per tabulas” dall’equipe di Bucci, che cercò di applicarlo soprattutto nelle operazioni che Genova aveva intrapreso sullo slancio del nuovo ponte “San Giorgio”, si è lentamente perso nella coscienza collettiva, prima di quella nazionale, poi anche in quella cittadina.
E le lentezze nella costruzione del Memoriale, nella sua presenza in città, nella costruzione di quel “cerchio rosso” che avrebbe dovuto riscattare i quartieri colpiti dal crollo in Valpolcevera, da via Fillak, a via Porro, alla Certosa, lo dimostrano quasi paradigmaticamente.
Il 14 agosto alla cerimonia numero sette il governo era rappresentato solo da Edoardo Rixi, vice ministro della Repubblica, genovese. Che ha fatto un discorso di livello molto alto, di responsabilità e di richiesta di giustizia e anche di scuse forti non solo per la tragedia, ma per le sue permanenti conseguenze sulle autostrade, vessate da sette anni da cantieri infiniti. Funestate da incidenti.
Ma oltre al fiero deputato genovese, non un ministro, non un’autorità nazionale, che venisse a ricordare, quando all’inaugurazione del nuovo ponte per la prima volta nella storia repubblicana tutte le autorità del Paese, dal presidente della Corte Costituzionale, ai presidenti delle Camere, al presidente della Repubblica, a quello del Consiglio e a cinque ministri, testimoniavano la presenza dello Stato a quella dimostrazione di riscossa genovese.
Ma quella di 23 mesi dopo la sciagura sul nuovo ponte San Giorgio, era una grande passerella, una esibizione perfetta nella quale molti, tutti potevano rivendicare il loro impegno e il successo finale, anche se poi in pochi erano quelli che effettivamente avevano lavorato alla riscossa, in una Genova dilaniata…
Le campane di tutte le chiese di Genova e le sirene delle navi hanno suonato come sempre alle 11,36 di sette anni dopo. Ma quel suono, quel segnale, trovano meno rimbalzi che mai.
Solo le parole, ancora una volta forti, toccanti della rappresentante delle vittime, Egle Possetti, duramente colpita in tutta la sua famiglia dalla tragedia, la folla nutrita, quel Memoriale che nelle sue parole deve diventare “un treno della memoria” che non si ferma”, avevano la forza e l’emozione di allora.
Ora si aspetta il finale del processo (che è sparito da tempo dalle cronache nazionali), la sentenza, l’accertamento delle responsabilità e l’applicazione della legge, appena varata, per il risarcimento ai cittadini danneggiati dall’incuria dello Stato.
La forza di un “metodo Genova” smarrito nell’ignavia dei politici e degli amministratori, non è certamente salita su quel treno della memoria che Egle Possetti invocava.
