La lotta all’evasione fiscale rilanciata dal presidente americano Barack Obama non sarà facile. Nel mese che è trascorso dalla riunione dei G20 a Londra, che aveva al centro proprio l’evasione internazionale e il modo per fermarla, molte parole sono state spese, molte carte sono state firmate, ma l’impressione generale è che ben pochi passi avanti siano stati compiuti. Come scrive il settimanale tedesco der Spiegel «la lotta contro i paradisi fiscali è un pasticcio»
L’Ocse, l’organizzazione economica internazionale che tiene il registro dei paesi – evasori, aveva già pulito le sue liste, fin dalla vigilia del G20, dopo intensi negoziati con le diplomazie dei vari paesi: nessuno voleva essere nella lista nera e nessuno c’è rimasto, nemmeno gli ultimi quattro i meno influenti sul piano internazionale, che ancora vi figuravano alla vigilia: Costa Rica, Uruguay, Filippine e Malaysia. Hanno tutti giurato, firmato e sottoscritto e sono stati depennati.
Ma basta un controllo a campione, per vedere che oggi, proprio oggi, nulla sembra essere mutato: andate su Google, digitate Labuan, che era ed è il paradiso fiscale malese, e tra i primi link che vi sono proposti c’è questo: “Tax free offshore company in Labuan”.
Proprio Labuan, l’isola dei romanzi di Emilio Salgari, nelle cui giungle il mitico pirata Sandokan e suoi amici Yanez, Tremal Naik e Kammamuri hano combattuto tigri e soldati inglesi, è oggi luogo di conti off shore e night club per turisti in cerca di facili avventure con pochi soldi. E la Perla, Marianna? Svanita anche lei, è diventata Paperanna, in una parodia di Disney.
Aprite e leggerete, in inglese: «Società offshore in un mondo che cambia. Paradisi fiscali e strategie alternative». Se poi uno apre e legge ancora, ecco l’elenco, secondo gli esperti di Labuan, dei paradisi fiscali che l’Ocse ha dimenticato, ciascuno con argomenti interessanti per chi abbia denaro da nascondere all’estero e sottrarre al fisco del suo paese: la lista è aperta dagli Stati Uniti d’America, sì proprio loro, in compagnia di Gran Bretagna, Danimarca, Israele, Uruguay, Costa Rica, Islanda, Singapore, Madeira (Portogallo) Isole Canarie (Spagna), Brunei e, ultima della lista, Ungheria. A leggere i dettagli che il sito fornisce per ciascuno dei paesi in elenco, viene da piangere all’idea di non avere i soldi da portarci.
Il sito di Labuan è un po’ di polemica, per dire che non ci sono solo loro, un po’ di servizio: Labuan, la perla del Borneo dove affari e piacere si trovano assieme.
Pochi, dice il sito, hanno sentito parlare di Labuan, una piccola isola dello stato della Malesia nel mare della Cina del Sud. Una volta era una base inglese per combattere la pirateria. Il porto franco dell’isola è oggi uno dei principali punti di trasbordo di merci per la regione. L’isola ha grandi spiagge bianche e i sub sono attratti dalle barriere coralline che la circondano. Labuan è stata dichiarata paradiso fiscale dal governo malese nel 1990. Ci sono molte banche islamiche (per attrarre gli enormi capitali del mondo musulmano, dall’Indonesia al Pakistan ai paesi arabi), ma sono solo 2500, nulla a confronto con le oltre centomila dei paradisi caraibici.
Ci sono tutte le spiegazioni su come funziona, e bene, il paradiso fiscale, e tutte le informazioni a sostegno del lato piacere. Ci si arriva comodamente in aereo, da Roma, due giorni alla settimana, il volo è diretto con Malaysian Airlines, ci sono alberghi (non devono essere eccezionali, c’è solo un quattro stelle) locali notturni, spiagge e fondali da urlo.
E Salgari? Ma allora lo scrittore veronese trapiantato a Torino si era proprio inventato tutto? Certo che no. Salgari costruiva le sue fantasie sulla lettura degli atlanti, delle guide turistiche e delle enciclopedie dell’epoca. Lì ha appreso delle barriere coralline oggi paradiso dei sub, all’epoca luogo designato al surf per Sandokan e i suoi prahos e allo schianto per le cannoniere britanniche che lo inseguivano. E all’epoca, come spiega il sito, Labuan era un base inglese, a poche miglia a nord della costa settentrionale del Borneo, per la lotta ai pirati, che in quegli anni infestavano quei mari.
Lì ci mise molto del suo James Brook, il raja bianco di Sarawak, altro personaggio salgariano, lui realmente esistito. Ai pirati non concedeva molte garanzie processuali: li impiccava direttamente ai pennoni delle navi e li lasciava appesi per parecchio tempo, in modo che chi avesse avuto tentazioni avesse da meditare su quei grappoli di cadaveri.