Albano Laziale, il papà sta morendo. Chiama il 112, per mezz’ora risponde il disco: “Rimanga in attesa”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 9 Agosto 2017 - 15:26 OLTRE 6 MESI FA
Albano Laziale, il papà sta morendo. Chiama il 112, risponde il disco: "Rimanga in attesa"

Albano Laziale, il papà sta morendo. Chiama il 112, risponde il disco: “Rimanga in attesa”

ALBANO LAZIALE – Il padre ha avvertito un malore nella notte. La figlia preoccupata chiama il 112, ma per 30 lunghissimi minuti a risponderle è solo la voce metallica del disco registrato. “Rimanga in attesa“, continua a ripetere la voce automatica. La donna chiede aiuto ai vicini, al fratello e alla cognata, continuano a chiamare il 118. Vanno anche al vicino ospedale per chiedere un’ambulanza, ma gli dicono che di mezzi di soccorso non ci sono. E intanto, il padre, è morto.

Uno sfogo, quello della giornalista Valentina Ruggiu su Repubblica, un racconto di quella terribile mezz’ora che le ha segnato la vita e che ha sancito la morte del padre, senza che lei potesse fare nulla, senza nemmeno il conforto di un operatore che nell’emergenza le spiegasse cosa fare:

“Rimanga in attesa”. Sono passati più di due minuti ed è la seconda chiamata al 118. Attacco e riprovo a chiamare: “Rimanga in attesa “. La terza chiamata la faccio dal mio cellulare e parte alle 3:19. Nel frattempo arrivano mio fratello e la compagna. “Rimanga in attesa “. Lo sollevano, lo poggiano sul letto e vedo mio padre che si sta spegnendo. La chiamata è ancora aperta, sotto le grida di mia madre sento la voce registrata: “Rimanga in attesa”.

Non so cosa fare, vorrei solo un’ambulanza, qualcuno che ci aiuti. Urlo contro la voce registrata. Prendo una spugnetta bagnata e gliela passo sul viso, provo a mettergli qualche goccia d’acqua in bocca. Poi il dubbio: “Forse non dovevo farlo, forse non può ingoiare. E se soffoca?”. Ma a suggerirmi cosa fare non c’è nessuno, al telefono ho solo la voce di donna. Mio fratello nel frattempo va in cerca di un’ambulanza al pronto soccorso di Albano Laziale, il paese in provincia di Roma in cui ci siamo trasferiti per fuggire dal caos della Capitale”.

Dalla casa di Valentina si vede l’ospedale, ma nonostante la corsa del fratello al pronto soccorso gli rispondono che non hanno ambulanze per poterli aiutare:

“Rimanga in attesa”, continua la voce. Questa volta però decido che in attesa non rimango più: lascio la chiamata aperta e corro fuori. Intanto, alle 3:26 parte un’altra chiamata al 118 dal telefono della ragazza di mio fratello. La sua attesa si aggiunge alla mia.

Fuori, scalza, suono ai vicini. In casa c’è solo la figlia minore. Le chiedo di aiutarmi a chiamare i soccorsi e anche lei ci prova. Poi, d’improvviso la vocina dal mio smartphone si interrompe, mi rispondono.

All’operatore dico dove abito, gli spiego del rumore tremendo che mi ha svegliata e di come ho trovato mio padre. Gli dico che è ancora vivo, ma che sta per morire. Gliel’ho visto in faccia. Serve un’ambulanza urgentemente. Mi dice “Ok, trasferisco la chiamata alla centralina del 118 più vicina a lei”. E anche qui la beffa, uno dei punti da cui partono è a pochi minuti da casa. Ritorno in attesa, di nuovo la voce cordiale di donna.

Urlo, mi sembra un incubo. Al telefono della vicina risponde un altro operatore: gli spiego tutto di nuovo. Sottolineo che ho già parlato con loro, che mi hanno già messo in attesa con il 118, ma che mio padre non ha più tempo, morirà se non si sbrigano. Torna la voce di donna. Mollo il telefono con la chiamata aperta alla vicina, le dico di non riagganciare e di ripetere cosa ho detto io casomai qualcuno dovesse rispondere. Corro in mezzo alla strada e comincio a urlare aiuto. Anche la vicina urla, vede un uomo uscire dalla casa di fronte. Lo raggiungo gli dico di entrare in casa mia, che deve correre perché papà sta morendo e il 118 non risponde e devo portarlo al pronto soccorso”.

Un uomo esce di casa e la donna gli chiede aiuto, ma ormai è troppo tardi: il padre è morto. E allora al dolore si unisce la beffa:

“Alle 3:34 e alle 3:36 mi chiama un numero privato: “Signora se la vuole ancora, le mando un’ambulanza “. Volevo aiuto e ho avuto solo una voce registrata. L’autopsia forse dirà che si è trattato di un ictus o di un’ischemia, in ogni caso darà una spiegazione a quel tonfo che ho sentito. Forse però non saprò mai perché ho atteso così tanto una risposta dal centralino unico del 112, perché abbiamo dovuto chiamare in tre, perché mi hanno rimesso altri minuti in attesa dopo aver parlato con l’operatore. Mi domando se fosse accaduto mentre non c’era mia madre che correva a prendere il telefono o mentre non c’ero io che mi sono svegliata e che, dopo averla calmata, le ho detto di prenderlo quel telefono. O se non ci fossero stati, nella casa accanto, mio fratello e la ragazza. Mi chiedo a quante persone quella vocina abbia detto di rimanere in attesa, a quanti quei minuti sarebbero potuti servire per non perdere la vita.

Per mio padre forse non avrebbero potuto fare nulla, ma una voce umana mi avrebbe almeno aiutata, guidata, supportata. Ho dovuto caricare mio padre in macchina. Mio fratello ha dovuto guidare con le gambe tremolanti. Alle 3:34 o alle 3:36, quell’ambulanza a noi non serviva più. Eravamo già al pronto soccorso, qualche minuto più tardi ci hanno ufficializzato la morte.

Mio padre si chiamava Gianfranco e faceva il cameriere, era un uomo devoto al suo lavoro. Un padre e un marito con i suoi pregi e i suoi difetti. E questo racconto è perché nessun altro padre, marito o figlio, nessun altro amico o cugino, possa morire con una voce che ti dica “Rimanga in attesa”.