Quarant’anni di divorzi all’italiana. Un addio ogni tre matrimoni e l’assegno mensile deludente

Pubblicato il 1 Dicembre 2010 - 10:36 OLTRE 6 MESI FA

Sophia Loren e Marcello Mastroianni in "Matrimonio all'italiana"

Per dirsi addio in Italia ci vogliono da cinque a dieci anni. Poi il divorzio è finalmente siglato e il matrimonio chiuso. Se quaranta sono gli anni che compie la legge Fortuna-Baslini, sono quaranta anche le coppie che in media due volte a settimana vanno dal giudice per spianarsi la strada verso il divorzio.

La fotografia dell’Italia dal quel 1970 non è cambiata nelle intenzioni forse, ma nei tempi in cui si matura la scelta. Negli ultimi 15 anni ci si sposa molto meno, le nozze si sono dimezzate, le separazioni raddoppiate e i divorzi saliti del 50 per cento. Si registra un divorzio ogni tre matrimoni. «E, al contrario di prima, si divorzia a tutte le età, non solo i giovani, ma i sessantenni che hanno perso la testa per la badante, la cinquantenne insoddisfatta che vuole cambiare aria e partner. I quarantenni sono quelli che divorziano di più. La crisi del settimo anno è solo un ricordo, il momento critico è tra i dieci e quindici anni di convivenza», ha spiegato Gian Ettore Gassani, avvocato matrimonialista.

Perché si dice addio? Se prima erano solo incomprensioni o tradimenti, adesso anche i figli sono sempre più un ostacolo alla vita di coppia: «Una causa sempre più ricorrente sono i figli. Spesso una nascita anziché avvicinare marito e moglie apre le prime crepe. Ho avuto, tra i miei clienti, mariti esiliati dal letto e spediti sul divano, per fare posto al figlio bisognoso di coccole».

Cosa è cambiato quindi in quarant’anni? «La famiglia uccide più delle mafie» ha detto Gassani, 200 omicidi vengono compiuti tra le mura di casa. E poi c’è l’insofferenza, la noia che aumentano. Nel ’70 il legislatore pensò a tre anni di limbo fra separazione e divorzio, così da cercare di ricucire uno strappo. Ora però «il periodo di separazione triennale non è certamente un tempo dedicato dai coniugi a tentare la riconciliazione, ma è una anacronistica attesa a cui si sommano i tempi (purtroppo spesso molto lunghi) e i costi di due cause (la separazione e, tre anni dopo, il divorzio)», ha scritto Carlo Rimini su “La Stampa”.

Una volta chiusa la porta però c’è la delusione dell’assegno mensile, non piace sia a chi lo riceve (per cui è sempre troppo poco) e sia per chi lo deve sborsare (troppi soldi e troppa fatica). Come ha spiegato Rimini la norma “talora scontenta il coniuge più debole che vuole una effettiva compensazione per i sacrifici, spesso enormi, fatti a favore della famiglia e dei figli durante il matrimonio e riceve invece dall’altro un assegno assistenziale mensile che generalmente, lungi dal consentire di mantenere lo stesso tenore di vita matrimoniale, costringe a penose rinunce. Talora scontenta invece il coniuge più forte (generalmente il marito) che non comprende per quale ragione, dopo la fine del matrimonio, deve essere tenuto a versare mensilmente una somma di denaro che egli interpreta come una rendita vitalizia parassitaria”.