Marrazzo, carabiniere imputato: “Nessun ricatto. Non siamo stati professionali, ma quel video…”

di Edoardo Greco
Pubblicato il 19 Aprile 2017 - 13:20 OLTRE 6 MESI FA
Marrazzo, carabiniere imputato: "Nessun ricatto. Non siamo stati professionali, ma quel video..."

Il palazzo di via Gradoli 96 dove i carabinieri imputati sorpresero Piero Marrazzo in compagnia di trans ANSA/MASSIMO PERCOSSI/CRI

I carabinieri che trovarono Piero Marrazzo in via Gradoli con trans sostengono che non volevano ricattare l’allora governatore, ma di aver al limite provato a vendere il video per “fare gossip”, travolti da una vicenda più grande di loro. Nessuna estorsione, né ricatti o richieste di danaro: si è difeso così in tribunale Luciano Simeone, uno dei quattro carabinieri della compagnia Trionfale di Roma – all’epoca dei fatti – accusati di infedeltà e di ricatto, a seconda delle posizioni, per l’irruzione nell’abitazione della trans “Natalie”, il 3 luglio 2009 in via Gradoli 96, dove si trovava l’allora presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo.

Per la vicenda che prese spunto dal presunto ricatto ai danni di Marrazzo, sono sotto processo, oltre a Simeone e Tagliente anche i carabinieri Nicola Testini e Antonio Tamburrino. Gli inquirenti contestano una ventina di capi di imputazione che vanno, seconda delle posizioni, dall’associazione per delinquere alla rapina, dalla violazione della privacy a quella del domicilio.

“Certamente – ha aggiunto Simeone in aula – non ci siamo comportati in modo professionale quando trovammo Marrazzo in pieno stato confusionale. Io e il mio collega Carlo Tagliente girammo un video a nostra tutela perché venisse documentato tutto quello che c’era in quella casa, dai tanti soldi sparsi ovunque, alla cocaina lasciata su un piatto, ma l’errore più grande fu quello di aver tentato di commercializzare il filmato”.

“Su un piattino c’era meno della sostanza bianca che poi buttammo in bagno e soldi dappertutto – ha aggiunto – Ci saranno stati ventimila euro. Il presidente, che non sembrava lucido, ci implorava di non procedere. Non ci sono reati, ripeteva. Avremmo potuto segnalarlo come assuntore alla prefettura. Ma trovandoci davanti a uno degli uomini più potenti d’Italia non sapevamo che fare. Di sicuro il nostro fine non erano i soldi, altrimenti avremmo presi quelli in casa”.

“Come Arma – ha dichiarato Simeone – non abbiamo fatto una bella figura, ma se si potesse vedere quel filmato senza tagli, oggi parleremmo di altro, non certo delle pesantissime accuse che la Procura mi contesta”.

Simeone attribuisce l’idea di vendere il video a Gianguarino Cafasso, pusher confidente dei carabinieri poi morto per overdose.

Rifiutammo un’offerta di 40 mila euro da un’agenzia fotografica di Milano per il video – ha riconosciuto Simeone – un po’ perché la ritenemmo bassa, un po’ perche’ ci accorgemmo di essere seguiti e controllati dai carabinieri del Ros”. Il processo, una ventina di capi di imputazione che vanno, tra l’altro, dall’associazione per delinquere alla rapina, dalla violazione della privacy a quella del domicilio, proseguirà il 20 giugno prossimo con l’esame degli altri imputati.