Nyt: Amanda come Berlusconi e il complesso di inferiorità italiano

Pubblicato il 5 Ottobre 2011 - 16:49 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Sul delitto di Meredith, sull’assoluzione di Amanda e Raffaele a 4 anni di distanza dalla loro incarcerazione, sul pandemonio mediatico che ne è scaturito, una sola cosa è chiara: il caso ha conservato intatto il potere di polarizzare l’opinione pubblica. Lo sostiene il New York Times, in un articolo che passa in rassegna tutte le fratture, le contrapposizioni, le proteste o il giubilo seguiti alla lettura della sentenza del processo più seguito degli ultimi anni. Non solo innocentisti e colpevolisti a confronto. Non solo in Italia.

Mentre Amanda saliva la scaletta dell’aereo verso la libertà, sul banco degli imputati finivano i pm dell’accusa, e il sistema giudiziario italiano in toto. Ma anche la gran cassa mediatica americana, la più che probabile fortuna in dollari destinata alla ex diabolica femme fatale cui è stata restituita l’innocenza.

Prima polarizzazione evidente. L’America fa festa, giustizia è stata fatta. In Gran Bretagna opposta reazione: i giornali sono focalizzati sul dolore della famiglia Kercher, che  giustizia sentono di non averla ottenuta. Il Daily Mail insinua a caratteri cubitali che la piangente Foxy (Amanda) è stata liberata per fare un sacco di soldi, tra interviste esclusive, libri, diritti di sfruttamento eventuali.

Seconda polarizzazione, più sottile e scivolosa, è nelle reazioni italiane al capovolgimento del giudizio di Perugia. Ovviamente il massimo della divaricazione nei commenti lo offrono il Giornale e Repubblica, poli che non si attrarranno mai. Il New York Times riferisce le opinioni di Vittorio Macioce del quotidiano filoberlusconiano e di Vittorio Zucconi, schierato sul fronte opposto. La prima è tranchante, ma meno partigiana dell’equazione Berlusconi-Amanda, innocenti perseguitati e “Arrestate i giudici”.  Sostiene Macioce: “Allla fine di una storia senza pietà, Meredith è morta a 22 anni e non ha ottenuto giustizia, Amanda e Raffaele sono stati messi in prigione per quattro anni senza una sentenza definitiva”. Chiara l’allusione ai guasti della giustizia italiana, in particolare sull’eccesso di detenzione preventiva o usata a scopo investigativo. Zucconi predilige una lettura più sociologica quando sottolinea che “più che di un caso legale, si è trattato di uno scontro di culture”. Con l’aggiunta di una stoccatina alla presunta arroganza yankee: “L’America processa le persone, ma non vuole essere processata”, con, anche qui, il riferimento ai piloti Usa responsabili della strage del Cermis, o ai militari responsabili della morte del nostro agente segreto Calipari in missione a Baghdad.

Rachel Donadio e Elisabetta Povoledo, corrispondenti da Roma e Perugia, per il New York Times non fanno mancare un accenno al sentimento di umiliazione provato per come è stato rappresentato in America il nostro sistema giudiziario. Gli italiani, secondo le due giornaliste, tradiscono un certo complesso di inferiorità su come la loro immagine è percepita all’estero. Temono i giudizi negativi e reagiscono stizziti alle critiche: “Come possiamo accettare lezioni da un paese che ha ancora la pena di morte?”  è il commento più gettonato dai radioascoltatori che al mattino affollavano il centralino di Radio 24.